Erano, dieci anni che la banca centrale statunitense non abbassava i tassi d’interesse. Nel 2007 il tasso era arrivato al 5,25%, poi venne azzerato con l’esplosione della crisi, per poi risalire fino al 2,5%. La settimana scorsa ha deciso un taglio pari a 0,25% del tasso base. È il primo segnale concreto in controtendenza rispetto alle scelte restrittive in corso negli Usa dal 2015, cioè da quando sono ripartiti i tassi ed è stato interrotto il quantitative easing.

Da tempo era in corso anche il riassorbimento dei titoli comprati attraverso il programma di alleggerimento quantitativo. Quindi dopo varie pressioni sul piano politico e, soprattutto, in un quadro complessivo non esaltante, la Fed ha deciso di cambiare rotta. Non è ancora chiaro se tale scelta indica una vera e propria inversione di tendenza oppure un modo per prendere tempo in attesa che il panorama globale si schiarisca. Quel che è certo è che per ora tale scelta tranquillizza, benché non soddisfi appieno, Casa Bianca e Wall Street. Entrambi, infatti, stanno misurando difficoltà che non corrispondono a un paese che avrebbe alcuni fondamentali in ordine, quali ad esempio occupazione e consumi.

E le ragioni si trovano sul piano interno e su quello internazionale. Negli Usa gli investimenti esteri diminuiscono da due trimestri consecutivi, quelli domestici sono in contrazione addirittura da sei e l’inflazione si allontana dall’obbiettivo del 2%.

Segnali preoccupanti giungono anche dal rendimento dei titoli di Stato a tre mesi che supera quello dei titoli decennali. L’ultima volta era accaduto nel 2007 e solitamente tale inversione nella curva dei rendimenti preannuncia una recessione.

Non è una regola ferrea, ma una indicazione di cui preoccuparsi. Insieme a problematiche riconducibili al livello globale. Per quanto attiene alle scelte sul dollaro l’Economist ha sostenuto recentemente che i paesi emergenti «hanno bisogno di un break».

Il Fmi ha tagliato la loro crescita al 4,1% riportando il tasso di crescita al 2009. Da quando la Fed ha imposto politiche restrittive sul piano globale i paesi emergenti sono stati costretti a ridurre la loro moneta facile e a fare i conti con i loro debiti in dollari, ma questa politica monetaria più restrittiva ha impedito di mantenere una crescita adeguata. Ora il cambio di passo della Fed è circondato da scelte simili adottate dai principali mercati emergenti. Il ritorno alla moneta facile può costituire un’«opportunità», come afferma sempre l’Economist. In tutto il mondo le politiche monetarie sono tornate attive o, perlomeno, hanno fermato la loro ritirata.

La de-dollarizzazione dell’economia globale, per quanto avviata, non ha ancora raggiunto un punto di non ritorno. La dipendenza finanziaria dagli Usa e dalla loro moneta risulta ancora evidente. Perdura una coincidenza di interessi e necessità tra diversi paesi in cui la politica va in soccorso dell’economia.
Paesi come la Turchia hanno appena abbassato il tasso di oltre 4 punti percentuali. La banca centrale britannica ha ribadito di tenere fermi i tassi a 0,75% in attesa dell’evoluzione della Brexit. Nell’Eurozona, dove la Bce si adegua al contesto internazionale con una certa lungaggine, si parla di tassi fermi almeno fino a metà del 2020 e in ogni caso fino a quando sarà necessario inseguire una inflazione prossima al 2%.

La Bce discute addirittura l’avvio di un nuovo piano di acquisto di titoli. Complessivamente, dunque, a fronte di un generale peggioramento delle prospettive economiche, le banche centrali stanno riproponendo un’iniezione di liquidità nel sistema.

Senza condizioni monetarie espansive l’economia, reale e finanziaria, non ce la fa, a dimostrazione del nesso tra le due sfere. Un bel dilemma per i cantori del libero mercato, ma anche per quei populisti che vivono nell’illusione di non cambiare i fondamentali, accontentandosi di espedienti monetari.