La storia è nota e, in prima lettura, semplice, in assenza del marito Teseo, Fedra si innamora del figliastro, Ippolito che la respinge, e per disperazione si uccide sui brandelli dell’amato corpo. Questa lineare conseguenzialità – concesso di inserire in una rigida griglia sentimenti e passioni – è presa dal regista Carlo Cerciello a paradigma per denudare la natura umana e una delle forme più emblematiche della sua fragilità, l’amore. Reduce dal 52esimo ciclo di rappresentazioni classiche del Teatro Greco di Siracusa, questa Fedra di Seneca è approdata per un paio di repliche al Teatro Romano di Ostia Antica, offrendo la possibilità di godere del lavoro di un uomo di teatro, troppo spesso escluso dai cartelloni stagionali. Cerciello riesce comunque a distinguersi nel panorama nazionale per la sua creatività militante e l’impegno pedagogico. È attivo a Napoli nel suo Teatro Elicantropo, piccolo spazio – fondato giusto vent’anni fa – in cui nascono memorabili spettacoli, come il recente Scannasurice con il quale, insieme a Imma Villa, ha posato una pietra miliare nel teatro di Enzo Moscato.

Ed è proprio lei a indossare i pesanti panni di Fedra, contornata da una foresta di alberi rinsecchiti, come metafora mortifera di un finale già scritto.
Quando nell’orchestra dell’antico teatro compare Ippolito (Fausto Russo Alesi), sorpreso nelle sue devote scorribande in onore di Artemide, l’algidità del giovane si scioglie nei giuochi di caccia accanto ai compagni, mentre la regale figura di Fedra compare, più in alto sul palcoscenico. Dall’esile corpo di Imma Villa esce potente, la voce dolorosa della protagonista, quando confida alla nutrice (la spesso ronconiana Bruna Rossi) il suo amore proibito. Ma nulla Carlo Cerciello concede all’etica di convenzioni e leggi dell’«uomo», tutto è qui costruito sul registro irrazionale della passione.

Il clou del sentimento si raggiunge nel duetto Fedra-Ippolito, nello scontro tra misogina castità/devozione a una fede feroce e abbandono totale della donna/madre/natura all’amore. Ma al di là del genere sessuale dei due personaggi, Artemide è dea contraddittoria e complessa, capace di cieche vendette, intransigente con i suoi adepti. Protettrice dei vergini (come Ippolito), del parto e della fertilità. Se non fosse stato Teseo a far ridurre a brandelli il corpo del figlio ritenuto fedifrago, forse ne avrebbe fatto scempio la stessa Artemide.

Sembra quindi che Cerciello abbia usato questa occasione per contrapporre due visioni del mondo, quella laica, aperta e piena d’amore contro l’oscurantismo dogmatico di una fede (religiosa) – qualsiasi essa sia, sarebbe riduttivo ricondurla alle attuali esibizioni di odio mortale dell’Islam più retrogrado e violento.

Del resto, a riconfermare il dominio di Artemide è lo stesso Fausto Russo Alesi che si sdoppia e nel finale diventa Teseo di ritorno dalla guerra di Troia. E trova sua moglie trasportata in lettiga, ormai stremata dal dolore del rifiuto, lasciatasi convincere dalla nutrice a ribaltare i fatti, accusando Ippolito addirittura di stupro. A differenza di Phaedra’s love di Sarah Kane in cui succedere di tutto davanti agli occhi degli spettatori, qui si segue la regola della tragedia antica e si sollecita la fantasia di ognuno che guarda. Muore Ippolito tra le grinfie della belva inviatagli dal padre, come racconta il messaggero, e muore Fedra, mentre confessa l’inganno al marito Teseo, senza prosopopea, nell’asciuttezza di una regia chiarificatrice anche nella conduzione degli attori, mai preda di inutili virtuosismi.