Qualche settimana fa l’approvazione da parte della Commissione Europea delle linee guida della Sup (Single Use Plastic), la direttiva europea che punta al contrasto dei prodotti usa-e-getta in plastica, ha scatenato un putiferio con conseguente polarizzazione estrema del dibattito. Da un parte gli «ecologisti» che difendono a spada tratta la direttiva, dall’altra «le lobby della plastica».

COME SPESSO SUCCEDE, IL TEMA è un po’ più complesso di come si presenta a prima vista. Innanzitutto sul piano legislativo la battaglia contro la plastica è in accelerata a livello mondiale: il programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep), registra un numero crescente di provvedimenti relativi all’uso di prodotti in plastica: a luglio 2018, centoventisette dei 192 paesi esaminati (circa il 66%) hanno adottato una qualche forma di legislazione per regolamentare i sacchetti di plastica: divieti o eliminazioni graduali di sacchetti di plastica non biodegradabili, incentivi alla produzione, importazione o uso di sacchetti biodegradabili e o compostabili, divieti su prodotti specifici come piatti, cannucce, imballaggi o su materiali come il polistirolo, tasse sulla produzione e il consumo di sacchetti di plastica, responsabilità estesa del produttore per i sacchetti e, per i prodotti monouso, bando delle microsfere.

PER QUANTO RIGUARDA L’EUROPA, un passaggio importante è avvenuto nel 2015, quando è stata approvata una direttiva che ha obbligato gli stati membri a dire gradualmente addio ai sacchetti in plastica: di conseguenza ogni stato ha modificato la propria legislazione, attraverso l’istituzione di tasse sugli shopper o il bando di quelli non compostabili. In Italia ci siamo adeguati senza troppe storie nel 2017 con l’approvazione del decreto Mezzogiorno, che ha cambiato la nostra relazione con i sacchetti di plastica, introducendo il divieto di commercializzazione delle borse fornite ai consumatori, il divieto di cessione gratuita per tutte quelle per l’asporto merci e per i sacchi a contatto diretto con i cibi, l’obbligo di pagamento e la loro biodegradabilità e compostabilità. Tali provvedimenti, rispetto ai quali in Europa siamo stati capofila, hanno determinato in pochi anni un calo nel consumo di sacchetti drastico: da 200 mila tonnellate all’anno si è passati a 60 mila, più del 60%.

NEL CASO DELLA SUP, INVECE, NON SOLO si è vista la levata di scudi di tutto un settore commerciale, ma anche dal Ministero per la Transizione Ecologica e, udite udite, anche da Legambiente, sono arrivate critiche. Ma vediamo di che si tratta. La Single Use Plastics del 5 giugno 2019 sostanzialmente dichiara guerra ad alcune categorie di prodotti di plastica monouso. Alcuni sono messi al bando, come cotton fioc, posate, piatti, cannucce, agitatori per bevande, stecchette per palloncini, contenitori per alimenti fatti in polistirene espanso.

PER ALTRI PRODOTTI, PRINCIPALMENTE bicchieri e relativi coperchi, contenitori per alimenti pronti/da consumare subito, il consumo deve essere ridotto fortemente ed in maniera duratura. Inoltre i produttori di contenitori per cibo, pacchetti e involucri di materiale flessibile per alimenti, contenitori per bevande e relativa copertura, bicchieri e loro coperture, sacchetti leggeri, filtri di sigarette, salviettine detergenti, palloncini, attrezzatura da pesca in plastica dovranno assicurare il principio del chi inquina paga, con le cosiddette Epr (Responsabilità estesa del produttore), ovvero coprire il costo della raccolta, il trasporto ed il trattamento, incluso il costo per ripulire il marine litter e le campagne di sensibilizzazione.

L’APPROVAZIONE DELLA DIRETTIVA è avvenuta in tempi record: quando in genere ci vogliono due anni, in questa occasione in soli 6 mesi si è giunti a un provvedimento che rispondeva a quella che era diventata evidente essere un’emergenza mondiale. Basti pensare che anche la Cina è corsa ai ripari: a inizio 2020 ha infatti annunciato il suo piano per vietare la plastica monouso in tutto il paese: entro la fine del 2020, i sacchetti di plastica non biodegradabili saranno vietati nelle «città chiave». Il piano legislativo cinese di riduzione delle plastiche monouso ha attinto abbondantemente da quello europeo, ma con una differenza sostanziale: la Cina consentirà la produzione, distribuzione e utilizzo di manufatti quando essi siano costituiti da bioplastiche, mentre la direttiva europea mette sullo stesso piano plastiche tradizionali e bioplastiche; consentiti quei prodotti solo se costruiti in materiali considerati «naturali» come la cellulosa e il bambù, ma anche il cellophane e la viscosa che sono derivati sintetici. Ad essere definite bioplastiche sono materiali che possono essere rinnovabili (prodotti da biomasse, fonti velocemente rinnovabili) o biodegradabili (vengono ridotti a anidride carbonica e acqua dai microrganismi) o entrambe le cose.

ESISTONO DIVERSI TIPI DI BIOPLASTICHE in base al livello di corrispondenza a una o entrambe le proprietà. Per esempio il Pet da fonte rinnovabile è una bioplastica non biodegradabile. Il Pbat, polibutirrato, è una bioplastica flessibile usata per sacchetti completamente biodegradabile ma prodotta da fonti fossili. Il Mater-Bi utilizzato per piatti e bicchieri è a base di amido ed è biodegradabile. Ma non essendoci accordo sui tempi di decomposizione in ambiente marino, questo materiale ed altri in base alle direttive europee non potranno più essere utilizzati per i prodotti monouso. E su questo si basa per esempio la posizione di alcune associazioni ambientaliste come Greenpeace, che plaude alla Sup senza se e senza ma.

LE DIRETTIVE EUROPEE HANNO generato frustrazione tra chi da anni fa ricerca su questi materiali, sviluppando tecnologie all’avanguardia, che adesso vengono utilizzate e ulteriormente sviluppate in Cina, che sta sempre più investendo sull’utilizzo delle bioplastiche come soluzione alle problematiche legate all’inquinamento, sia per quanto riguarda i prodotti citati che per altre applicazioni innovative in campo agricolo, come i teli per pacciamatura biodegradabili. Inoltre i produttori di manufatti monouso, non potendoli produrre nemmeno in bioplastica come era stato fatto invece per i sacchetti (plastiche e bioplastiche vanno negli stessi macchinari) rischiano di chiudere, in quanto dovrebbero reinvestire in macchinari costosissimi per poter lavorare con bambù o cellulosa.

PROPRIO L’ITALIA E’ POTENZIALMENTE uno dei paesi più colpiti da questo aspetto della Direttiva Europea, in quanto insieme alla Spagna è tra i più grandi produttori di materiali monouso come posate, piatti, contenitori. Un mercato da 240 mila tonnellate di prodotti, 950 milioni di euro di fatturato e 3000 lavoratori diretti. I paesi europei devono recepire la direttiva entro il 3 luglio e le intenzioni dell’Italia, secondo quanto emerge dallo schema di decreto legislativo in preparazione al Ministero della Transizione Ecologica, è quella di introdurre delle deroghe, in particolare la possibilità di utilizzare articoli monouso in bioplastica biodegradabile e anche compostabile (possono anche essere gettate nel compost) quando non sia possibile l’uso di alternative riutilizzabili nel caso di oggetti destinati ad entrare a contatto con alimenti, per i quali i rischi di contaminazione sono maggiori con materiali quali bambù o cellulosa. Un po’ come si è fatto con i sacchetti della spesa.

QUESTA SOLUZIONE LIMITEREBBE le perdite del comparto ed è effettivamente più coerente con la natura e potenzialità di questi materiali, a cui fare la guerra come alle plastiche tradizionali forse non conviene, non solo dal punto di vista commerciale ma anche ambientale: il problema infatti è l’uso improprio del manufatto monouso, anche laddove non necessario; una cultura , quella dell’usa e getta illimitato, che non ci possiamo più permettere, perché nessuna risorsa, per quanto più rinnovabile di altre, è infinita.