Sul Lido che si è svuotato lentamente degli accreditati è il momento, come sempre accade alla fine di un Festival, del solito giochino «chi vincerà il Leone?»: stasera (in diretta su Rai Movie dalle 18.45) la giuria (blindatissima) guidata dal Leone d’oro dello scorso anno, Guillermo Del Toro, annuncerà le sue decisioni chiudendo la Mostra 2018, un’edizione piena di nomi, film, visioni.
Le voci danno tra i possibili premiati Roma di Cuaron ma anche Capri-Revolution di Martone e Audiard con la sua copia conforme di western The Sister Brothers, forse Assayas o forse Lanthimos e la sua Favorita... Chissà. (Ma nel palmares dovrebbero esserci Vox Lux e Suspiria perché funzioni…).

Per chiudere il concorso direttore, Alberto Barbera, e selezionatori hanno scelto il nuovo film di Shinya Tsukamoto, autore che spesso ha mostrato in concorso le sue opere al Lido – gareggiava per il Leone anche con Fires on the Plain (2014) – divenuto col personaggio di Tetsuo, ai primissimi anni Novanta, l’icona di una nuova generazione di registi giapponesi che nel loro lavoro hanno meglio metabolizzato il «metodo» e le invenzioni visualmente politiche dell’underground (pensiamo a Wakamatsu) – per raccontare il Sol Levante.

L’uomo cyborg degli esordi – inquietante espressione di una società controllata dal progetto di rivincita sulla sconfitta (la seconda guerra mondiale) e dall’ordine totale – emozioni comprese – della produttività ha progressivamente assunto nel cinema del regista – classe 1960 – declinazioni diverse. E pur rimanendo in Giappone la sua astrazione coinvolge una realtà universale.
Killing per sensibilità (e dichiarazione dello stesso regista) continua la riflessione di Fires on the Plain – la storia di un soldato abbandonato nella giungla e della sua progressiva perdita di ogni «umanità» – ma in un certo senso all’inverso: se lì infatti eravamo nel conflitto mondiale, qui siamo nel Giappone pacificato del diciannovesimo secolo in cui regna la pace, i samurai si sono impoveriti e molti tra loro vagano senza padroni. Anche Tsuzuki non pratica l’arte della guerra, è un samurai che per vivere lavora nei campi aiutando una famiglia di contadini, genitori e due figli, il ragazzo che Tsuzuki cerca di introdurre alla spada, e la figlia con la quale c’è un legame speciale, un’attrazione mai detta, sono sguardi, due dita che si sfiorano, spintoni come quelli dei ragazzini.

I tre giocano nel bosco, sembrano felici, sono coccinelle strane, con un numero non regolare di pallini sul dorso, ma che si arrampicano sugli alberi per librarsi su nell’aria. Finché non compare un vecchio samurai, anche lui senza padrone (lo stesso Tsukamoto) che nota la bravura del ragazzo e vuole portarlo via con sé per montare un suo esercito e finalmente riaprire la guerra così che i samurai non saranno più poveri… Ma simulare il combattimento è diverso che uccidere davvero, il ragazzo non ce la fa a uccidere e chiede all’anziano come sia possibile, come riesca a farlo così facilmente … Lui che quando stermina una banda di feroci criminali non li finisce ma li lascia morire dissanguati, senza un braccio o una gamba, perché abbiano il tempo di pensare alla loro vita.

È un manifesto pacifista Killing, Tsukamoto racconta di essere partito da un’immagine che aveva in testa da tempo: un samurai che sfodera la sua spada, a cui segue una domanda: «Come si può uccidere?» fatta anche a se stesso. Ma è qualcosa di più nell’astrazione che il regista spinge all’estremo, senza una storia se non questa immagine di partenza ripetuta all’infinito tra sangue e arti mozzati, nel corpo dei protagonisti.
Immersi nel bosco gli attori di un film in costume – come potrebbe esserlo uno dei film girati da Straub-Huillet – diventano segni di un’universalità che riguarda gli effetti della guerra, delle armi (il Giappone che nella politica attuale di Abe rivendica il neomilitarismo) quello scontro che riaperto sarà senza fine. Le armi però impongono la loro legge, i corpi si fanno terreno di battaglia, il cuore scompare nelle danze dello scontro. Batte? È paura? O è consapevolezza?

Questi corpi maciullati e sanguinanti si fanno essenza del conflitto, di ogni conflitto, delle conseguenze che innesca -il villaggio non sarà più lo stesso – le sue pratiche e i suoi traumi. Senza bisogno di parole né di una «storia» Tsukamoto punta all’essenzialità della materia che affronta, la esplora con scelte formali senza un passo di troppo, che la interrogano sulla linea del dubbio e della contraddizione. Un corpo a corpo in profondità.