La resa di Giorgetti è totale. Se incondizionata o meno lo si capirà quando, l’11 e 12 dicembre a Roma, si terrà il congresso della Lega travestito da Conferenza programmatica. Salvini non aspetta che a Montecitorio inizino i lavori del Consiglio federale per dettare le condizioni. Lo fa sulla porta, parlando ai giornalisti perché i dirigenti intendano: «La mia impressione è che il Consiglio approverà all’unanimità le posizioni presenti e future della Lega». Più che una previsione è un diktat: nessun distinguo, nessun dissenso. Con piglio militaresco: «Ascolto tutti poi decido, come sono solito fare».
AD ASCOLTARE, per 50 minuti, sono però i dirigenti leghisti presenti al completo, qualcuno dal video, come i presidenti Fedriga, Fontana e Zaia, molti in carne ed ossa a partire dall’imputato Giorgetti che arriva fresco di cdm appena terminato. E anche a loro il leader ribadisce il suo perentorio ordine: «Basta mettere in discussione la compattezza e la visione della Lega, che è vincente». Alla fine l’«impressione» del capo si dimostra fondata. Nessuno revoca in dubbio la linea «presente e futura» da lui dettata. Nemmeno chi, come appunto il ministro dello Sviluppo ma anche i presidenti di regione, sarebbe in realtà di opinione opposta. Ma sul fronte della collocazione europea, cioè sulla scelta tra una Lega sovranista e radicale, oppure europeista e moderata, Salvini non media: «In Europa andiamo avanti per un grande gruppo identitario, conservatore e di centrodestra, alternativo ai socialisti con cui il Ppe governa da anni». Porte sbarrate, dunque, non solo per ogni collaborazione con i socialisti ma anche con il Ppe colpevole di non essere antagonista rispetto ai socialisti. E se non fosse abbastanza chiaro, il capo rincara: «Entrare nel Ppe, mai così debole, è impensabile: non è alternativo alla sinistra».
DOPO AVER VISTO la sua strategia liquidata, Giorgetti parla per primo e si adegua. Ribadisce completa fiducia nell’operato del leader e nella sua visione strategica. Tutti gli altri si allineano. Capitolo chiuso, almeno per ora. La resa degli europeisti appare completa. La pace, o la tregua, è tutta e solo alle condizioni di Salvini.
Ma è davvero così? A spingere Giorgetti a esporsi in modo per lui molto inusuale non è stato tanto il dissenso sullo schieramento sovranista in Europa, pur reale, quanto la paura che Salvini, scosso dallo sganassone delle elezioni comunali, ormai non più incalzato ma sorpassato da una Giorgia Meloni che sfrutta le mani libere lasciatele dal monopolio dell’opposizione, inizi a considerare l’ipotesi di sganciarsi dal governo Draghi. Non subito, non a finanziaria ancora da definirsi e poi da approvarsi ma subito dopo.
SU QUESTO FRONTE, la prolusione del capo non è tanto netta come sullo schieramento a Strasburgo. Salvini promette «massimo impegno sul taglio delle tasse: 9 miliardi per regalare il Reddito di cittadinanza a furbi e a evasori non è rispettoso per chi lavora. Interverremo per dirottare sul taglio delle tasse una parte di quei miliardi». È l’annuncio di una battaglia destinata a essere persa e Salvini non può non saperlo. Draghi ha già ripetuto in tutte le lingue che le cifre già inviate a Bruxelles non cambieranno, gli 8 miliardi per il taglio delle tasse resteranno tali. Sul Reddito, poi, i 5S già faticano molto a ingoiare la revisione delle dinamiche, una decurtazione significherebbe far esplodere la maggioranza.
LA BATTAGLIA SU UN TEMA identitario come il fisco, però, offrirebbe un alibi perfetto per dichiarare chiusa la positiva esperienza del governo Draghi subito dopo il varo della manovra. Del resto la Conferenza è programmata proprio «per sancire, aggiornare e decidere i binari su cui viaggiamo». Ma soprattutto, per la prima volta dalla nascita del governo, Salvini evita di ribadire la sua granitica fedeltà allo stesso. Si lascia aperte tutte le porte. Se tra lui e Giorgetti ci sia stato oppure no uno scambio, resa degli europeisti da un lato, conferma del sostegno pieno a Draghi dall’altro, lo si capirà tra poco più di un mese. Ma se anche Salvini dovesse optare per il colpo di testa, a Giorgetti resterebbe qualcosa in più di un premio di consolazione: a quel punto la strada del Colle per Draghi sarebbe spianata.