Entrare a Shengal non è semplice. Intorno alla regione nord-occidentale dell’Iraq checkpoint militari sono disseminati in un deserto privo di ostacoli naturali e umani, territorio aspro che ha permesso all’Isis di macinare chilometri e ingoiare comunità.

A controllare quei checkpoint non è quasi mai, direttamente, il governo centrale di Baghdad. Sono milizie paramilitari di diverso colore e affiliazione, di opposta e contrastante fedeltà a poteri esterni. Dettano legge nel loro spicchio di territorio, decidono chi passa e chi no.

UNA COSA IN COMUNE ce l’hanno: la necessità di isolare Shengal e la sua autonomia. Sono trascorsi esattamente sette anni dal genocidio subito dalla comunità ezida: lo Stato islamico è arrivato, senza freni, mentre i peshmerga del governo di Erbil si davano alla fuga. In poche ore gli islamisti hanno conquistato villaggi e città, massacrato migliaia di persone, rapito migliaia di donne.

È durata due anni, l’occupazione islamista. È stata sconfitta dalla resistenza armata ezida e da quella indispensabile delle vicine unità di autodifesa curde del Rojava, le Ypg e le Ypj, materialmente coordinate e sostenute dal Pkk.

Da allora la comunità ezida ha iniziato una lenta e accidentata ricostruzione di sé, seguendo il modello del confederalismo democratico reso pratico dall’Amministrazione autonoma della Siria del Nord-est.

L’AUTONOMIA, nata con un embrione di governo di emergenza sul monte Sinjar (dove nel 2014 si rifugiarono, nell’insopportabile calura di agosto, centinaia di migliaia di profughi), è in fieri. Di fronte ha ostacoli pratici: le ovvie difficoltà della formazione politica, la carenza di mezzi economici, una società tradizionale devastata dall’esilio e dalla guerra islamista combattuta sui corpi delle donne.

Ma ha anche ostacoli politici: «Nel 2017 la pressione delle milizie sciite e dei peshmerga ha spinto il Pkk ad annunciare il ritiro da Shengal – ci spiega in anonimato un giovane membro delle Asaysh, le forze di difesa interna – Il Pkk era consapevole che era nata una volontà politica e militare ezida di autogestirsi. Questo ha messo Shengal nel mirino di Iran, Kurdistan iracheno, Turchia e Siria. Da qui è nato il cosiddetto accordo di Shengal dello scorso ottobre tra Erbil e Baghdad: disarmare l’autodifesa ezida, le unità Ybs e Yjs, e riportare la regione sotto il controllo dello Stato».

A confrontarsi con lo Stato, a fare da intermediario, è il Pade, il Partito ezida della libertà e la democrazia. La sede principale è a Shengal City, in tutto l’Iraq ha 12 rappresentanze: «Il nostro compito è fare il possibile per far riconoscere l’autonomia democratica, sia dall’Iraq che dal resto del mondo – dice Zakia, uno dei membri – Come partito possiamo sostenere diplomaticamente questa spinta politica. L’Iraq è un paese in guerra, non è uno Stato unito: ci sono milizie che si contendono il territorio e il potere. Per questo vogliamo auto-rappresentarci e autogovernarci, rimanendo dentro l’Iraq».

RIMANERE DENTRO l’Iraq e magari superare le politiche divisive che dal 2003 hanno provocato un innaturale settarismo: «Dalla caduta di Saddam nel 2003 fino al 2014 – ci spiega heval Suleiman, rappresentante del Pade – il Kdp di Barzani era il partito che governava a Shengal. Ha messo in campo una strategia politica e militare di vendetta verso la popolazione araba per il passato governo del Baath. L’obiettivo era in realtà dividere ezidi e arabi, limitando la vita di questi ultimi per frammentare una società tradizionalmente multietnica. Prima arabi, ezidi, turkmeni, curdi condividevano gli stessi quartieri, le stesse feste, le stesse terre. Il Kdp ha distrutto tutto, per questo quando è arrivato l’Isis molti arabi lo hanno sostenuto: si sono vendicati per le discriminazioni subite per 11 anni».

Il Pade non ha rappresentanza in parlamento, punta alle elezioni di ottobre per entrarci. Al momento, aggiunge la co-presidente Zehra Silemani, «abbiamo firmato un accordo con altri 18 partiti per democratizzare l’Iraq. Quelli presenti in parlamento ci rappresentano in questo nostro sforzo politico».

Uno sforzo che ha alla base l’esigenza stringente di difendersi dagli attacchi esterni con forze proprie e di costruire una società nuova, fondata su democrazia dal basso – attraverso l’Assemblea del Popolo, i comitati, le assemblee di quartiere e di villaggio – e uguaglianza di genere.

Il percorso è accidentato, frenato dalle pressioni politiche e militari esterne, dal peso massimo della diaspora (la metà dei 500mila ezidi prima residenti a Shengal non ci vive più), dalla povertà e dai tempi lunghi della formazione politica in una società nuova alla teorizzazione del confederalismo democratico.

SI FA FORMAZIONE comunque, in ogni luogo. Come tra le file delle Asaysh e delle Ybs/Yjs, dove si procede con le accademie, secondo l’esempio del Rojava: «Sono accademie di ideologia e pensiero politico, oltre che militari – dice il responsabile dell’unità Asaysh nel villaggio di Sinone – Sulla base di questo, operiamo qui, i soli a farlo in ogni villaggio della regione per risolvere diatribe o reati secondo i principi di rieducazione e di risoluzione collettiva dei conflitti sperimentata nella Siria del Nord-est».

Sulle spalline non ha gradi, la gerarchia classica è stata rimpiazzata da un comando comune che assume insieme le decisioni. La gerarchia c’è invece nelle Ybs e le Yjs, ma anche qui è con il confronto che si decide come operare. Un modo, dice una delle comandanti dell’unità femminile, «per reagire a una ferita psicologica e fisica: con l’autodifesa ci ricostruiamo dal massacro dell’Isis».

Non è stato subito così. Immediatamente dopo il massacro del 2014, continua Suleiman, «gli ezidi hanno visto Stati strutturati non fare nulla e invece le unità curdo-siriane venire in loro soccorso. All’inizio l’interesse per il confederalismo democratico è stato acritico, più per sopravvivenza che per consapevolezza politica. Con il tempo però quel modello è stato assorbito da una realtà abituata al sistema statale. Questa coscienza politica è tuttora in fieri, è qualcosa di nuovo».

SI LAVORA IN ATTESA di ricomporre fisicamente la società. L’assenza di 250mila profughi pesa sia sul piano individuale che su quello collettivo. A frenare il ritorno di molti, quelli che ancora vivono nei campi rifugiati nel Kurdistan iracheno, è la pelosa strategia del Kdp: «Barzani ha bisogno che restino dove sono per due ragioni – conclude Suleiman – Sono un bacino di voti importante e sono fonte di profitto, intorno a loro girano i soldi dell’accoglienza. Per questo li terrorizza, dice loro che se torneranno a Shengal rischiano un nuovo massacro perché il Pkk è pericoloso e non li difenderà. Sappiamo di uomini dei servizi curdo-iracheni che, fingendosi membri dell’autonomia di Shengal, telefonano alle famiglie di profughi per minacciarle di violenze se oseranno tornare».