C’è una categoria che negli scontri tra Fiom e Cgil ha battuto i pugni sul tavolo della confederazione: è la Filcams – commercio, terziario, turismo – che con oltre 462 mila tesserati rappresenta l’organizzazione più grossa della Cgil dopo lo Spi. Il segretario Franco Martini, appena riconfermato al congresso che si è svolto nei giorni scorsi a Riccione, si è definito «arrabbiato» per come si sta svolgendo il confronto, e ha chiesto «maggiore considerazione».

Nei tanti comparti che seguite c’è un mondo variegatissimo di lavoratori, come fate a rappresentarli tutti?

Io insisto molto sul tema della confederalità, perché ad esempio negli appalti non potremmo mai ottenere nessun risultato se non collaborassimo con le altre categorie. Il filo rosso che accomuna tutte queste condizioni, devo dire che purtroppo è la precarietà. E certamente la via scelta dalle imprese per affrontare la crisi non ci piace: come Marchionne con la Fiat, puntano a mantenere i margini tagliando il costo del lavoro.

Cosa hanno fatto in particolare?

I maggiori gruppi della distribuzione hanno dato disdetta di tutti i contratti integrativi. Il messaggio è: se con la crisi non riesco a pagartelo, te lo tolgo del tutto. Puntano alla cancellazione dei premi di produzione fissi, per trasformarli interamente in variabili. Nei tavoli dei rinnovi nazionali chiedono che si affronti la caduta di produttività attraverso l’aumento delle ore lavorate a parità di salario, arrivando alle 40 ore medie settimanali.

E voi cosa contro-proponete?

L’Italia deve tornare a crescere. La crisi non solo ha ridotto i volumi nei carrelli della spesa, ma ha anche cambiato le abitudini di consumo e le strategie delle grosse aziende. Si riducono le superfici della grande distribuzione, e regge chi punta sul format intermedio. Con i consumi, cambiano anche i modi di vivere le città, i trasporti, gli orari. Faccio un esempio: il governo Monti ha liberalizzato le aperture festive e domenicali con l’illusione che bastasse a rilanciare i consumi. L’unico risultato è stato il peggioramento della vita di chi lavora, soprattutto delle donne. Per questo noi chiediamo a Renzi di tornare alla legge Bersani, che non impediva le aperture, ma disponeva di concordarle con i sindacati.

A proposito di Renzi, gli 80 euro rilanceranno i consumi?

In sé sono una misura positiva, ma ancora non si sa bene se verranno spesi o usati per pagare vecchi debiti. In ogni caso, si escludono i pensionati, e tante altre fasce di lavoratori. Ad esempio negli studi professionali abbiamo 900 mila dipendenti e 400 mila partite Iva, pressoché tutte false. Quindi i primi avranno quei soldi, mentre gli altri non li avranno. Credo che Renzi debba pensare a una più generale riforma del fisco, che premi tutti i redditi sotto una certa soglia. E poi, noi ci teniamo molto, deve rilanciare l’industria culturale. Angela Merkel ha triplicato gli investimenti in cultura, e questo ha inciso sul Pil tedesco.

Chiedete più attenzione dentro la Cgil.

Sì, l’ho detto al congresso: sono arrabbiato per come si svolge il dibattito. Abbiamo perso la confederalità, siamo diventati come tanti orticelli, uno diffidente nei confronti dell’altro. Mi preoccupa che un congresso che si era aperto unitariamente si sia tradotto in una zuffa.

La Fiom avrà pure i suoi limiti, però la stessa Camusso al Direttivo che ha approvato il Testo Unico ha ammesso che l’accordo non è stato sottoposto a tutta la confederazione prima della firma. Limite che lamentano praticamente tutti i segretari di categoria.

Sul piano metodologico anche noi rivendichiamo un maggiore coinvolgimento. Questo però non vuol dire che dobbiamo mettere sullo stesso piano il merito con il metodo. Il Testo Unico nel merito va bene: i nostri settori, con 6 milioni di persone, sono sprovvisti di regole sulla rappresentanza. Grazie a quel testo abbiamo chiuso il rinnovo con le coop, e siamo al tavolo con Confcommercio. L’accordo lo vogliamo anche noi: poi nessuno impedisce alle categorie di declinarlo nella contrattazione.