«Ero tanto stanco e giù di morale, oggi pomeriggio. L’insonnia è molto più difficile da sopportare del digiuno… Diventiamo sempre più deboli, respiriamo a fatica». Sono parole tratte da un diario doloroso, ignoto ai più, di Frank Gallagher, uno dei tanti hunger strikers della storia d’Irlanda; ma appartengono a tutte le lotte, a ogni battaglia di resistenza. Quasi sessant’anni dopo, un irlandese destinato a divenire più famoso di lui, Bobby Sands, si lasciò morire di fame insieme a nove suoi compagni nel carcere di Long Kesh, in Irlanda del Nord. Anche il suo di diario conteneva descrizioni degli stenti patiti e di quelli ancora da patire, regalandoci l’immagine di corpi che si consumano rapidamente, e di una incrollabile forza di volontà.

In Italia quel diario fu tradotto diversi anni fa da Silvia Calamati, e oggi, ad fargli compagnia sugli scaffali delle librerie, c’è un altro diario di guerra, curato dalla stessa giornalista. Un diario di sofferenza e di morte, compilato dal suo coraggioso autore fino a poche ore dalla fine. Il titolo è struggente ma veritiero: tratto da una delle espressioni più crude che possono reperirsi nel testo: Neve e fango per dissetarmi (Edizioni Socrates, pp. 203, euro 14). È il diario di Sotiris Kanellopoulos, partigiano della Guerra civile greca, e copre l’arco di poco più di due mesi, dal primo marzo, al diciassette maggio 1949, il giorno in cui troverà la morte.

Per uno strano scherzo del destino, anche il diario di Sands iniziava il primo di marzo, per poi concludersi il diciassette, meno di due mesi prima che esalasse l’ultimo respiro.
Questo prezioso documento è un libro composito. Il fulcro sono le quasi quaranta pagine che narrano gli ultimi giorni del partigiano, pagine cinte dall’abbraccio di un apparato critico importante. A una prefazione dell’esperta Caterina Carpinato, segue una toccante introduzione autobiografica di Silvia Calamati, mentre le parole di Kanellopoulos sono seguite da due sezioni, a cura rispettivamente degli storici Richard Clogg e Polymeris Voglis. In queste vengono ricostruiti meticolosamente, punto per punto, prima gli eventi che portarono dalla dittatura di Metaxas all’occupazione nazista, e poi gli anni della guerra civile (1946-49). Il libro si conclude con il «giuramento dei combattenti e dei capi dell’Esercito Democratico della Grecia», con il «piano di azione militare» del 1947, e con l’annuncio della fine delle operazioni di guerra. Fu questa una resa davanti al nemico, l’esercito nazionale, che disponeva in numero assolutamente maggiore di armi, mezzi e uomini.

La sconfitta dei partigiani viene anche presentata negli errori di strategia, e nelle scelte politiche non sempre fortunate che l’Esercito Democratico e il partico comunista presero. Prima tra tutte la decisione di quest’ultimo di non presentarsi, a guerra mondiale conclusa, alle elezioni del 1946, lasciando così campo libero alle forze conservatrici, monarchiche e fasciste. La débâcle doveva poi consolidarsi a seguito della rottura con Tito causata dalla sua espulsione dal Comintern del 1948.

L’immediata conseguenza della scelta dei comunisti greci di allontanarsi dal leader balcanico per allinearsi al mondo sovietico, fu la chiusura della frontiera della Jugoslavia, paese che fino ad allora non solo aveva ospitato i partigiani greci in fuga, ma aveva anche sostenuto le truppe ribelli con aiuti e rifornimenti. L’errore principale fu però quello di aver trasformato il conflitto da guerriglia di logoramento a guerra vera e propria. Un invito a nozze, per le forze sovrastanti dell’esercito nazionale.

Tuttavia, il cuore pulsante di questo bel libro sono e restano le poche pagine di diario di Kanellopoulos. I suoi sono appunti presi nei fari rifugi angusti, scavati nella roccia, in cui con alcuni compagni si nascondeva dai militari che gli davano incessantemente la caccia. Appunti frammentari, scritti a fatica, in condizioni impossibili, tra i morsi della fame, la paranoia, le forze fiaccate, il sonno. Ma anche la speranza, il canto delle pastorelle fuori dai rifugi, i suoni della natura, spezzati e feriti costantemente da quelli del fucile.

Le parole rarefatte del partigiano si tramutano quasi in versi, e tradiscono una profondità che è prossima alla disperazione: «Da sette giorni sono senza cibo e acqua. / Mi metto del fango in bocca per attenuare la sete. Non serve a nulla. / Le mie forze mi stanno inesorabilmente abbandonando. / Se avessi un po’ d’acqua riuscirei a masticare le lenticchie crude. Ma ora mi esce schiuma dalla bocca. / Che mi sia preso la rabbia?».

Le condizioni in cui vive Kanellopoulos sono ai limiti della sopportazione («Il buco in cui mi trovo è a cinque metri sotto terra. / Un’umidità terribile, un freddo incredibile e pensieri da pazzo»), ma il partigiano trova la forza e il coraggio per resistere, per andare avanti, per fuggire da una tana che si sta trasformando in una prigione. E allora, allo stremo delle forze, in cerca di acqua, raggiunge una fonte: «la bella e indimenticabile acqua di Avlós mi ha ridato le forze e il coraggio di continuare il mio cammino, barcollando».

I pochi attimi di sollievo, che pure donano a queste pagine un’incredibile umanità, si offuscano al pensiero, non più del nemico, ma del tradimento. Emerge, infatti, tra le considerazioni di Kanellopoulos, il sospetto che uno dei due compagni con cui condivide i vari rifugi lo stia per denunciare ai militari.

Quando questi si assenta, i presagi di morte si fanno più concreti («Non oso scrivere quel che penso»). Nel giorno del suo compleanno, Kanellopoulos ha la forza di mettere nero su bianco la propria profezia: «compio 41 anni. / Il che mi commuove, ma al tempo stesso ho il terrore che questa ricorrenza significhi anche la mia fine». La fine arriverà, ma a ricostruirla non può che essere l’immaginazione. Il diario potente di questo partigiano nato il primo maggio, non si conclude: lascia aperto il finale. Ma è un finale che la storia ha poi dovuto scrivere.