Nel suo saggio più dolente, Malattia come metafora, Susan Sontag scrive nell’incipit che parlare del cancro equivale di solito a sovraccaricarlo di «bardature metaforiche» o, al contrario, avvolgerlo di reticenti perifrasi quasi che, in quanto massimo emblema della mortalità, il cancro eccedesse la misura della parola, essendo una presenza così incombente da abbuiare la pagina con la sua grande ombra fino a gonfiarla di sinistra retorica per infine sfiatarla o, se no, così impalpabile, alla lettera ineffabile, da sottrarsi a priori alla parola stessa.

Ha voluto viceversa parlare della sua lunga debilitante malattia come un fatto intrinseco alla vita, e che tale sempre rimanesse anche nei frangenti estremi, Severino Cesari di cui torna in libreria, intatto nella sua necessità espressiva, Con molta cura La vita, l’amore e la chemioterapia a km zero. Un diario 2015-2017 che Einaudi Stile Libero (pp. 578, € 17.00) ripubblica con la partecipe testimonianza di Paolo Repetti.

Il testo, che l’edizione postuma suddivide in tre parti, nasce quale finestra quotidiana di racconto e di dialogo su Facebook ed è una scelta singolare per un uomo tanto meditativo e riservato come Severino, perché nel suo diario in pubblico non c’è una smarginatura né un’ombra di premeditazione, non uno sbalzo di umore o qualcosa che affondi, o pieghi o anche strappi la pagina: «La malattia fa parte di me», è detto lapidariamente a un certo punto. Questa lunga cerimonia degli addii, scandita dai bianchi tipografici che alludono a intervalli di dolore e profondo silenzio, è condotta tutta quanta nel segno di una scrittura senza residui, elegante nella disadorna asciuttezza che fu il tratto elettivo dello stile di Severino, già negli anni settanta/ottanta responsabile delle pagine culturali del manifesto, poi a lungo dirigente editoriale (Theoria, Adnkronos, Einaudi) e sparring di una ricca filiera di narratori, lui che in prima persona si era concesso appena un libro di prose (bello e non sempre ricordato, Storie per quattro giornate, Sellerio 1989) nonché una manciata di versi propiziati da maestri come Franco Fortini e Giancarlo Majorino, che ritornano nel memoriale insieme con i classici più amati, da Rilke e Conrad a Primo Levi e Caproni.

Chi scrive il diario si dà il compito non tanto di testimoniare quanto, semmai, di testimoniare-per-conoscere. Nonostante l’equilibrio formale, la leggerezza di uno stile «bianco» e talora diafano nella sua magrezza, la scrittura di Severino ha dimensione corporea, non può mai fuoruscire dalla concretezza dei dati percettivi: può cambiare il luogo da scrutare, entro e fuori di sé, il decorso della malattia, ma non muta (e sul serio ha qualcosa di eroico) la natura di uno sguardo che è lieve, ma non meno prensile, su camere di ospedale, perimetri chiusi e centripeti, saturi di odori e colori ossessivi, frazioni di tempo immobile, perfettamente circolare che apre tuttavia, imprevisto, sulle rare preziose sortite all’aperto, sui peripli di un universo cordiale il cui epicentro è all’Esquilino, tra i portici e le bancarelle di Piazza Vittorio dove una possibile colonna sonora (evocata peraltro nel testo) è il poema sinfonico di Respighi, I pini di Roma, mentre negli spazi reclusi della clinica la sola musica pensabile è il battito cardiaco, lo stillicidio della flebo.

Ed è come se la malattia, lo stato di perpetua vulnerabilità incrementasse in chi sta scrivendo la percezione di tutto ciò che è umano, nudamente umano, e anzi lo calamitasse non solo relativamente ai gesti di Emanuela (la moglie di Severino, figura presente in assoluto), di suo figlio Lorenzo e degli amici di sempre ma anche e soprattutto di persone poco o mai conosciute che gli lasciano in Facebook una parola con gli autentici revenants entrati, fosse solo per un attimo, in quella singola esistenza che si sa prossima al congedo se, infatti, il diario viene costellato di ricordi, di dediche, di fermo-immagine (davvero stupendi quelli dedicati al padre e alla madre, scomparsi di recente).

Non per caso torna più volte la parola condivisione, segno di apertura e scambio, di laica umanissima eucarestia della vita quotidiana: «Non aspettarsi nulla. Tutto accade. Quello che devi fare- la gioia è poterlo fare, che è già condivisione»; come nemmeno è un caso che in una delle annotazioni estreme del diario compaia espressamente la parola amore: «Siamo creature nella tempesta, sempre. Unico riparo è aprirsi all’amore, e allo stupore per ogni minima bellezza, perché amore e stupore dilatano il nostro tempo all’infinito». Il passo allude alla particolare sospensione o dilatazione del tempo che soltanto l’atto del conoscere sa garantire interponendosi fra soggetto e oggetto, fra sé e le cose del mondo: ed è perciò che amare e conoscere, per Severino, riuscivano a essere la stessa cosa e dunque una conquista comune, un gesto di tacita intesa, un pane da spartire con l’interlocutore.

Chi ha avuto la fortuna di incontrarlo ne ricorda l’attitudine maieutica senza essere invasiva, aperta, disponibile all’altro senza esserne mai complice: infatti chi lo ha conosciuto sa bene che la scrittura di Severino duplicava la fisionomia della sua persona, che l’eleganza dello stile era un segno della sua stessa umanità