«Nel corso delle Operazioni Al-Fath un attacco martire ha colpito la stazione di polizia PD6 e l’adiacente Centro di reclutamento nella città di Kabul intorno alle 09.30 ora locale. L’attacco è stato condotto da un eroe dell’Emirato islamico, il mullah Jabbar Logari, con un camion carico di esplosivi che ha colpito la stazione dove vivevano e ricevevano addestramento circa 300 agenti di polizia ed esercito».

Recita così l’ultimo comunicato dei Talebani che rivendica la strage di ieri mattina a Kabul. Una strage non solo di poliziotti o soldati ma soprattutto di civili benché il comunicato della guerriglia si fosse affrettato a ricordare che la zona è chiusa al traffico non militare.

I morti sono almeno 14 e i feriti 150. La foto dell’esplosione del camion bomba, riprodotta sul sito dei Talebani, mostra un fungo di polvere bianca e nera che dà l’idea dell’enorme quantità di esplosivo utilizzata.

Chi si fosse illuso che i negoziati di Doha tra Talebani e americani avrebbero prodotto almeno un raffreddamento della guerra non ha che da controllare il bollettino quotidiano che, solo ieri, accanto all’attentato nella capitale – non certo improvvisato – contava due attentatori suicidi uccisi dall’esercito afghano alle porte di un campo militare a Baghlan, nel nord, e altri due membri dello Stato islamico freddati in un’operazione dei servizi segreti a Kabul in tre nascondigli degli affiliati alla cosiddetta «provincia del Khorasan», la branca locale dell’Isis.

A scorrere il calendario di luglio si conferma quanto due giorni fa ha riferito Unama, la missione Onu a Kabul: è stato il mese col maggior numero di vittime dal maggio 2017 a questa parte. E agosto rischia di registrare un bilancio simile.

A dispetto degli «eccellenti progressi» di cui ha parlato soltanto lunedì Zalmay Khalilzad, l’inviato del presidente Trump per la riconciliazione in Afghanistan, a proposito dell’ultimo round di colloqui con i Talebani a Doha, in Qatar.

A giudicare dalle dichiarazioni di Khalilzad e degli stessi barbuti, oltre che dalle parole di martedì scorso del segretario della Nato Jens Stoltenberg, sarebbe davvero vicina la firma dell’accordo in quattro parti che prevede il ritiro delle truppe americane in cambio della garanzia talebana che il Paese non diventi un santuario per i jihadisti a vocazione globale, oltre al dialogo intra-afghano e a un cessate il fuoco prolungato.

Dopo l’attentato di ieri, Khalilzad ha ricordato che «mentre ci avviciniamo ai negoziati intra-afghani che produrranno un road map politica e un cessate il fuoco permanente, l’obiettivo immediato dovrebbe essere la riduzione della violenza».

Così come d’altronde era stato promesso solo un mese fa, il 7 e l’8 luglio a Doha, quando la delegazione dei barbuti, dopo aver discusso per 14 ore con alcuni rappresentanti del governo (a titolo personale) e della società afghana, aveva messo nero su bianco l’impegno a «ridurre le vittime civili a zero, creando un ambiente favorevole alla pace».

Per ora, sia i Talebani sia gli americani continuano invece a seguire il doppio, opposto binario, discussioni fitte al tavolo negoziale e mano pesante sul fronte militare.

I Talebani proprio martedì hanno annunciato inoltre il boicottaggio delle elezioni presidenziali già rimandate due volte e previste per il 28 settembre: «Un complotto per ingannare la gente comune», «una subdola trappola politica», «una perdita di tempo, soldi e risorse per soddisfare l’ego di pochi politici», «un trucco degli invasori e i loro mercenari» che – questo l’appello rivolto ai mujahedin – va combattuto con ogni mezzo. Agli afghani, i Talebani dicono di «stare lontani da comizi e assembramenti». Altrimenti, rischiano la fine delle vittime di ieri.