Il rapporto tra macchine e capitalismo è strettamente connesso e imprescindibile. Il capitalismo come sistema di produzione (accumulazione) e di organizzazione del lavoro (comando) nasce con la nascita della macchina moderna. L’evoluzione del capitalismo si può descrivere come processo di evoluzione della struttura macchinica. Gilles Deleuze nel 1990, in un’intervista con Toni Negri, affermava: «Ad ogni tipo di società (…) si può far corrispondere un tipo di macchina: le macchine semplici o dinamiche per le società di sovranità, le macchine energetiche per quelle disciplinari, le cibernetiche e i computer per le società di controllo. Ma le macchine non spiegano nulla, si devono invece analizzare i concatenamenti collettivi di cui le macchine non sono che un aspetto». «Le macchine non spiegano nulla», diceva Deleuze. A ragione, dal momento che l’evoluzione del capitalismo è dettato dalla dialettica del rapporto sociale tra macchina (capitale) e lavoro, un rapporto, come ci ricordava il Tronti di Operai e capitale in cui il capitale (a differenza del lavoro) non può prescindere dal lavoro vivo umano. Ma forse, anche a torto, se analizziamo la recente evoluzione del «macchinico», neologismo che, sviluppato dal Gilbert Simondon e dallo stesso Deleuze, ci è utile per discutere criticamente la possibile (auspicabile?) metamorfosi del divenire umano delle macchine.

La variabile del tempo

Questo è il tema di fondo che innerva la raccolta di saggi, curata da Matteo Pasquinelli, Gli Algoritmi del Capitale, (Ombre Corte, pp. 190, Euro 18,00). Si tratta di un contributo molto importante e utile perché, nel solco della metodologia d’analisi che viene dall’operaismo, si cerca di indagare quella che possiamo definire in termini marxiani la nuova «composizione organica del capitale». Il tema della trasformazione delle macchine nel passaggio dal capitalismo fordista a quello biocognitivo è stato negli ultimi anni messo un po’ da parte a vantaggio della doverosa analisi del divenire della composizione tecnica del lavoro. Non si vuole con ciò affermare che non sia stato affrontato, tutt’altro. Il saggio di Matteo Pasquinelli «Capitalismo macchinico e plusvalore di rete. Note sull’economia politica della macchina di Turing» né è la conferma. Con estrema chiarezza, Pasquinelli ricostruisce il filo rosso che dalla macchina industriale, perno della produzione materiale, porta alla macchina di Turing, emblema della macchina virtuale, perno della valorizzazione del general intellect.

Il tema delle trasformazione della macchine nel macchinico non può essere analizzato se non in relazione al tempo e al lavoro vivo ad esso connesso.

La variabile tempo e soprattutto la costante accelerazione del tempo è una delle chiave di volta dell’organizzazione capitalistica della produzione. Macchina e tempo sono sempre strettamente connessi e il progresso tecnologico non è altro che la tendenza alla riduzione del tempo di produzione. Ma se tale obiettivo ai tempi del cronometro della fabbrica si poteva coniugare con una possibile riduzione anche del tempo di lavoro (come la storia del Novecento ci insegna), seppur a scapito dell’equilibrio ambientale, oggi l’accelerazione indotta dai tempi del computer non solo non può evitare la catastrofe ambientale ma può anche indurre quella sociale.

Il tema dell’accelerazionismo viene affrontata nella prima parte del volume, con la presentazione per la prima volta in italiano del Manifesto per una politica accelerazionista di Alex Williams e Nick Srnicek (Mpa). La tesi è suggestiva. Partendo dalla considerazione che il capitalismo non è altro che il processo di accelerazione dell’automazione (concetto ben diverso da velocità, come sottolinea Toni Negri nel suo contributo: il primo indica una tendenza dinamica, la seconda una variabile statica), oggi caratterizzata dalla tecnologie digitali, cercare di inseguirlo è inutile e inoltre perdente.

Pianificatori postcapitalisti

Il motivo sta che questa accelerazione si basa oggi, a differenza del passato, sulla compressione e comando della potenza del lavoro cognitivo. Il processo di tendenziale instabilità e quindi autodistruzione dello stesso capitalismo non si fronteggia ponendo barriere alla sua folle corsa, bensì operando per «liberare le forze produttive latenti». A tal fine, è necessario per la sinistra «sviluppare un’egemonia sia nella sfera delle idee che nella sfera delle piattaforme materiali» al fine di creare le premesse per «una pianificazione post-capitalista». (Si noti bene, come ci ricorda nel suo contributo Dier-Whiteford, che tale tentativo aveva già avuto luogo ai tempi dell’Unione Sovietica e del Cile di Allende, ma ancora in un contesto taylorista). «Per far questo, la sinistra deve approfittare di ogni progresso tecnologico e scientifico reso possibile dalla società capitalista». Tre sono gli strumenti concreti: «costruire un’infrastruttura intellettuale», «promuovere una riforma dei mezzi di comunicazione su larga scala» e infine, «ricostruire varie forme di potere di classe».

Toni Negri e Franco Berardi «Bifo» discutono dell’accelerazionismo partendo da due punti diversi, seppur complementari. Negri – pur apprezzando l’innovatività del manifesto nel riconoscere il superamento irreversibile del fordismo, la necessità di agire all’interno di una composizione tecno-politica del capitale e l’esigenza di individuare nuove modalità di organizzazione del lavoro cognitivo – vi nota un eccesso di determinismo tecnologico che «sottovaluta (…) la dimensione cooperativa della produzione (e tanto più la produzione di soggettività), (…) le trasformazioni antropologiche della forza-lavoro». Su questa linea, in modo molto più netto, si pone Bifo: «(Il mpa) sottovaluta completamente gli ostacoli e i limiti che ostacolano e dirottano il processo di soggettivazione» sino a dar corpo a una nuova forma di «immanentismo tecnologico»: «la posizione accelerazionista (…) è una manifestazione estrema della concezione immanentista», in quanto «il loro materialismo radicale implica la natura immanente della possibilità, ma questa immanenza del possibile non implica una necessità logica». Qui, l’inguaribile ottimismo di Negri si scontra con il pessimismo cosmico di Bifo.

Non solo social media

Sul tema Matteo Pasquinelli cerca di sviluppare una mediazione che apre alle altre due parti di cui si compone il libro, recuperando il concetto marxiano di astrazione. Lavoro e capitale si combinano continuamente ad un livello crescente di astrazione, reso possibile dalla trasformazione della macchina in algoritmi linguistici. Ed è proprio il linguaggio che innerva sia il lavoro vivo che il lavoro morto a rappresentare la chiave di volta nel passaggio dal fordismo al capitalismo del general intellect. Non si tratta solo di linguaggio umano, ma di linguaggio artificiale, in grado di definire la base del processo di accumulazione e quindi di valorizzazione. La sfida politica diventa così la necessità di riappropriarsi del linguaggio. Detto in altri termini, riappropriarsi del «comune» (al singolare) prodotto dalla cooperazione sociale a tutti i livelli del processo economico. Su questo tema si soffermano Mercedes Bunz e Stefano Harvey riguardo il lavoro, mentre Tiziana Terranova affronta invece il ruolo svolto dai social media. Nella terza parte del volume, significativamente intitolata «L’autonomia del comune», Carlo Vercellone si interroga sulla necessità di ridefinire un nuovo welfare adeguato a queste trasformazione e Christian Marazzi analizza il ruolo del linguaggio nei mercati finanziari e la possibilità di fondare una «moneta del comune».