Nel maggio del 1955 William Faulkner andò all’ippodromo di Churchill Downs, a Louisville, per assistere al Kentucky Derby, la corsa riservata ai purosangue inglesi che si svolge annualmente dal 1875 e che costituisce la prima tappa della prestigiosa Triple Crown degli Stati Uniti. In un articolo pubblicato sulla rivista «Sports Illustrated», l’autore dell’Urlo e il furore rievocò l’addensarsi del gruppo dei cavalli in «un’onda bruna punteggiata dalle giacche sgargianti dei fantini come schegge che fluiscono verso di noi lungo la staccionata» – i muscoli degli animali tesi nell’arco di una traiettoria che ricorda «il grande falco in discesa, inflessibile e non deviabile, vorace non di carne ma di velocità e distanza».

Faulkner intuì che ad attirare il folto pubblico di appassionati verso «lo sport dei re» non sono solo le scommesse e i guadagni milionari, ma qualcosa di più profondo, radicato nella natura e nelle necessità emotive dell’essere umano: quell’ammirazione atavica per la velocità e la potenza del cavallo, in cui l’uomo «proietta il proprio desiderio di supremazia fisica, di vittoria».
Lo sport dei re (traduzione di Giovanna Scocchera, Einaudi, pp. 584, euro 24,00), secondo romanzo della scrittrice americana C. E. Morgan, ruota proprio intorno al mondo delle corse dei cavalli e si conclude con una descrizione del Kentucky Derby del 2006 che per profondità di linguaggio e ricchezza di espressione non ha nulla da invidiare a quella dell’illustre predecessore. La quarantaduenne Morgan dimostra infatti di non temere il confronto con i grandi del passato, anzi, la sua penna sferzante mira proprio al «cuore dell’esperienza collettiva americana, se mai si può dire che esista una cosa del genere» – come ha scritto nell’introduzione a Luce d’agosto di Faulkner, suo imprescindibile modello letterario.

Con la statura del mito
Abbandonate le atmosfere intimistiche del romanzo d’esordio – Tutti i viventi, una storia di orfani in fuga dal Sud claustrofobico della loro infanzia – Morgan ha scelto di abbracciare una più vasta dimensione multigenerazionale, cimentandosi in un’epica di appartenenza e riscatto. Lo sport dei re è un romanzo audace, corale, finemente costruito e stratificato, che mentre descrive i processi di allevamento, riproduzione e addestramento dei cavalli da corsa riflette sulle più importanti questioni sociali e razziali che affliggono ancora oggi il Sud degli Stati Uniti. E lo fa guardando a giganti del calibro di Mark Twain, Herman Melville, Harriet Beecher Stowe, la Toni Morrison di Beloved, il Cormac McCarthy della trilogia della frontiera.
Lo sport dei re possiede la statura totalizzante del mito e l’ampiezza di prospettive caratteristica dei grandi romanzi storici, ma riesce a cogliere con estrema precisione anche gli impulsi più riposti e meno verbalizzabili dell’animo umano, quei rivolgimenti interiori che determinano la vita di una persona e che fanno parte tanto dell’eredità genetica quanto del retaggio culturale. La trama del romanzo abbraccia diverse generazioni dei Forge – dal patriarca Samuel, tra i primi a valicare il Cumberland Gap con uno schiavo al seguito e a stabilirsi in Kentucky, fino a Henry, rampollo della ricca aristocrazia terriera che alla morte del padre decide di trasformare le piantagioni di granturco di famiglia in un allevamento di purosangue.

Alla frontiera della schiavitù
Henry è talmente ossessionato dalle teorie evolutive da ambire a ottenere, attraverso accurate selezioni genetiche, il cavallo perfetto, mentre sua figlia Henrietta, protagonista dell’ampia parte centrale del romanzo, cresce annotando passaggi di Darwin e Dawkins accanto ai pedigree dei cavalli dell’allevamento paterno. Quando la madre, psicologicamente fragile, abbandona la famiglia e si trasferisce in Germania, l’istruzione di Henrietta diventa appannaggio esclusivo di Henry, che con la sua rigida disciplina le insegna quella che ritiene «la realtà pura e semplice» tramandata di padre in figlio, cioè che «i neri sono inferiori ed è sempre stato così». Come stupirsi se, ribellandosi alle idee paterne, per perpetuare la stirpe dei Forge Henrietta sceglierà proprio Allmon Shaughnessy, il groom nero assunto alla scuderia contro il volere del padre?

Morgan è nata in Ohio ma vive in Kentucky, e il suo romanzo è ambientato proprio al confine tra i due stati, in quell’area geografica che tanta triste importanza ha rivestito nella storia americana. Oltre a segnare il confine con il Kentucky, infatti, nell’Ottocento il fiume Ohio significava per migliaia di afroamericani la frontiera tra schiavitù e libertà: su una sponda l’oppressione, la tortura, la morte; sull’altra la possibilità di sopravvivenza, la speranza di un futuro. Proprio al fiume, evocato attraverso un susseguirsi di metafore e di immagini sovrapposte, è dedicato uno dei tanti, superbi brani descrittivi del romanzo: «La rete fluviale si avvolge in un velo di sposa, la sera emette il suo ovattato ronzio, un sudario, il mormorio di una madre che invita al silenzio, la litania di una preghiera, questo fiume è una ninna-nanna e un canto funebre, questo fiume è una promessa fatta alla luce del giorno ma difesa di notte». Qui, come nel resto del libro, l’ottima traduzione di Scocchera restituisce con grande efficacia il lento fluire della prosa, la placida, densa, imperturbabile voce delle acque che scorrono all’imbrunire. Mentre osserva quel fiume che si appresta ad attraversare per guadagnarsi la libertà, lo schiavo fuggiasco Scipio capisce per la prima volta «l’assurdità di ogni cosa, il fatto che in quella notte precisa sarà la geografia a levargli dal viso la maschera della schiavitù, quella distanza arbitraria, quattrocento metri che Dio ha messo sulla terra per pura bellezza», ma che per lui rappresentano l’intero orizzonte degli eventi.

Una prosa di velocità incostante
Il romanzo procede a velocità incostante, a volte sintonizzanto selvaggiamente con il ritmo dei giri di pista di Hellsmouth, la puledra eccezionale in cui Henry ripone ogni speranza di gloria, altre volte trascinandosi lenta e febbricitante come il letto limaccioso del fiume o le stagioni che si rincorrono colorando di luci sempre diverse la campagna. Morgan riesce a mantenere livelli di scrittura altissimi per quasi tutto il romanzo, destreggiandosi tra gli stili più diversi: dai miti di fondazione ai sermoni, dai dialoghi teatrali al linguaggio scientifico della geologia e della biologia evolutiva, dal monologo interiore alle citazioni di testi reali e inventati. Se la storia della famiglia Forge è radicata nella leggenda di un viaggio nell’Oltretomba, il passato di Allmon è narrato invece secondo i canoni del romanzo naturalistico – le origini della sua famiglia raccontano una storia ben più prosaica di sofferenza e miseria, malattia e discriminazione, delinquenza e disagio giovanile, che offre a Morgan la possibilità di sferrare una critica spietata al sistema sanitario, giuridico e carcerario americano.
Nello Sport dei re risuonano voci autoritarie, impetuose, disperate, arrabbiate – urla d’esaltazione soffocate da pianti accorati, grida di vittoria sopraffatte da selvagge imprecazioni – ma la voce più distintiva e sferzante è quella del fantino gay nero Reuben Bedford Walker III, sicuramente il personaggio più originale del romanzo, che si autodefinisce «la levatrice del diavolo, il Messia sceso in terra sotto forma di un piccolo pugno nero in faccia al Colonnello del Kentucky» e che nell’immenso teatro del romanzo rappresenta il fool shakespeariano, la voce irriverente che sputa verità scomode in faccia al potere dei bianchi: sarà lui a suggellare l’immagine del Kentucky come «la feccia sotto gli stivali del demonio»: «Centoventi contee di whisky e morti ammazzati, zeppe di boscaioli bifolchi e fuorilegge amanti delle risse e delle scopate». Una descrizione poco lusinghiera, ma che non può non ricordare la stessa «terra scura e insanguinata» cantata da Faulkner nelle sue opere.