All’indomani del lockdown, mentre la pandemia di covid ancora imperversa in tutto il mondo, l’interconnessione fra tutti gli elementi naturali, le persone e le cose raccontata da una polifonia di voci e immagini in Living in the Future’s Past di Susan Kucera – questi giorni in programma alla dodicesima edizione di SiciliAmbiente Film Festival di San Vito Lo Capo, che si conclude oggi – assume una risonanza nuova e ancora più attuale rispetto all’anno (il 2018) in cui il film è stato realizzato.

NARRATO da Jeff Bridges, e con il contributo di decine di scienziati, fisici, astronauti, attivisti ambientali, il documentario è un monito sul futuro del nostro pianeta che in gran parte scarta dal classico immaginario di devastazione di film del genere: i ghiacci che si sciolgono, le cappe di smog sopra le metropoli globali, gli animali scheletrici. Ma sceglie invece di raccontare appunto come tutto sia interconnesso, dal nostro stile di vita nel mondo occidentale dove l’immediata disponibilità di qualunque bene di consumo «cancella» tutto il lavoro – e l’impatto sull’ambiente – che c’è dietro, all’impossibilità delle creature viventi di adattarsi in termini evolutivi a un cambiamento, quello climatico, troppo veloce perché le leggi dell’evoluzione della specie possano trovare una strategia di sopravvivenza.

Nonostante la parsimonia di immagini «punitive» per lo spettatore la sensazione è di trovarsi in un’apocalisse già compiuta, rispetto alla quale all’essere umano spetta il compito di cambiare la prospettiva sul suo posto nel mondo che ha sinora «dominato», ancor prima che aspettare una soluzione offerta dalla scienza a un meccanismo che ha ormai assunto una velocità incontrollabile. Un «superorganismo» umano e tecnologico messo in moto dalle azioni di miliardi di persone da cui possono nascere eventi imprevedibili e potenzialmente catastrofici.

Catastrofe che in un altro film presentato a SiciliAmbiente, Stalking Chernobyl: Exploration after Apocalypse di Iara Lee assume la forma dell’apocalisse avverata: sono le immagini di Pripyat, la cittadina dell’Ucraina distante 2 km dalla centrale nucleare, evacuata all’indomani dell’incidente del 26 aprile 1986 – nella convinzione degli abitanti che sarebbero «tornati dopo pochi giorni» – e rimasta da allora una città fantasma. Gli ex abitanti pensano Pripyat con nostalgia («ci inebriava il profumo delle rose»): la città era perfino oggetto di documentari tesi a dimostrare come scienza, esseri umani e natura potessero convivere pacificamente in una sorta di sogno avverato dell’umano progresso.

OGGI, a Pripyat, nonostante tutto proprio la natura ha ripreso il sopravvento, e il documentario di Lee si concentra su un fenomeno esploso nell’ultimo ventennio: il turismo dell’apocalisse. Pripyat è la meta turistica più popolare dell’Ucraina, visitata ogni anno da viaggiatori di tutto il mondo che, con guide esperte, seguono dei tracciati sicuri all’interno della città. Ma esiste anche un altro tipo di turismo: quello nella zona di alienazione, l’area sorvegliata e inaccessibile dove il fall-out nucleare comporta ancora un grave rischio per la salute. Un movimento crescente di persone visita Pripyat, spesso più volte nel corso degli anni, proprio per violare i suoi confini invisibili: si chiamano stalker come nel film di Tarkovskij – ma il «mistero» racchiuso dalla Zona non è qui che la superficie sottile di una ricerca in fondo non dissimile dal turismo massificato del tutto indifferente al luogo che si visita – come dimostrano le foto delle case abbandonate di Pripyat in cui le cose lasciate dagli abitanti più di 34 anni fa vengono spostate, cambiate (o ne vengono perfino aggiunte di nuove) a uso e consumo di foto ad alto tasso di like.

LA «SCELTA» degli stalker è molto diversa da quella degli abitanti dell’isola scozzese di Canna, sperduta nell’oceano atlantico a due ore di traghetto dalla terraferma. Li racconta – quasi uno a uno dato che ad oggi sono meno di 20 – il documentario di Martin Telser: Until we Return. Nessuno di loro è nativo dell’isola: l’hanno raggiunta in cerca di una nuova vita, nella speranza di coltivare una modalità diversa di comunità. Ma come dimostra la sequenza iniziale, in cui la postina di Canna raccoglie i pacchi che arrivano due volte a settimana insieme ai rifornimenti dalla terraferma, i pacchi di Amazon approdano lo stesso sull’isola sperduta – in un organismo ormai irrevocabilmente interconnesso anche per chi si rifugia ai confini del mondo.