Raccontare il proprio viaggio, la propria storia, attraverso degli oggetti realizzati a mano e che possano arrivare nelle case di tutti. Un opificio autogestito, ricavato in uno dei tanti fabbricati dell’ex caserma Piave a Treviso, in cui alcuni rifugiati e richiedenti asilo stanno trovando il modo di esprimersi attraverso la manualità, scoprendo il design come forma di narrazione.

È questa l’idea alla base del progetto Talking Hands («Mani Parlanti»), sorto all’interno del centro sociale Django. I ragazzi coinvolti, alcuni da molti mesi in Italia, frequentavano già questi spazi, in particolare la palestra popolare Hurricane. Piano piano hanno cominciato ad aprirsi, a raccontare le proprie storie, a sottolineare soprattutto la difficoltà di vivere mesi nel limbo di una interminabile e inoperosa attesa. Da qui l’idea di un laboratorio di falegnameria.

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La prima serie di oggetti sono delle casette in legno in cui i bambini possano giocare, rifugiarsi, non a caso il nome della collezione è Rifùgiati, che richiama ovviamente la condizione dei ragazzi di Talking Hands. I micro-spazi, bellissimi, colorati con delle textures che richiamano motivi grafici africani, sono stati progettati dal designer trevigiano Matteo Zorzenoni, coinvolto da Fabrizio Urettini, uno degli attivisti di più lungo corso. «Abbiamo cercato intanto di pensare a dei materiali facili da trovare e a costo zero, del legno recuperato – racconta Zorzenoni -, poi ho disegnato degli oggetti che fossero accattivanti, dal design semplice ma di forte impatto. E da qui è cominciato il lavoro in laboratorio, dove ci siamo confrontati nelle varie fasi di lavorazione». Sono i ragazzi africani infatti a gestire in autonomia le varie operazioni.

Il più esperto è Yaya, 23 anni, che faceva il carpentiere in Gambia e quindi ha insegnato agli altri i primi rudimenti di falegnameria. In tutto a frequentare l’opificio sono una ventina, molti gambiani, altri provenienti dalla Sierra Leone, dalla Nigeria, dal Senegal. Ho modo di parlare con alcuni di loro, come Yankuba (anch’egli gambiano) che mi mostra con orgoglio lo spazio, Sakson, che prima di venire qui lavorava come dj in una radio, e Malick, ragazzone senegalese che mi prende in disparte prima di andare, e che tiene a raccontarmi del buon lavoro che aveva in Senegal e del fatto di essere stato costretto a partire. Non mi dà altre spiegazioni, ma è evidente la difficoltà di chi si è ritrovato dall’altra parte del mondo senza averne avuto l’intenzione.

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Anche le prime ragazze, fino ad ora più restie a uscire dal centro di accoglienza, cominciano a frequentare il laboratorio e gli spazi del centro.

In questi giorni Talking Hands ha dato avvio a una nuova collaborazione, lo studio dei due giovani designers Giorgia Zanellato e Daniele Bortotto disegnerà infatti la nuova «collezione», pronta probabilmente per la primavera. Il successo dei primi lavori ha avuto il merito di attirare l’attenzione sull’opificio, che di fatto esiste solo da pochi mesi.
Gli oggetti esposti per la prima volta a Man(IN)chiostro, mostra di design e artigianato indipendente di Treviso, sono andati quasi tutti venduti a famiglie affascinate dal bell’effetto degli arredi. Anche i commercianti del luogo cominciano a collaborare, un negozio di ferramenta ad esempio ha recentemente donato dell’attrezzatura all’opificio. I ricavi delle vendite servono infatti per ora soprattutto a coprire le spese riguardanti i materiali e i pochi utensili necessari.

La maggior parte dei ragazzi coinvolti sono richiedenti asilo ospitati nella ex caserma Serena di Casier, centro di accoglienza gestito da Nova Facility, società che ha vinto anche l’appalto per un centro con 300 ospiti ad Oderzo, sempre in provincia di Treviso. Molti sono stati indirizzati qui dopo i fatti di Quinto del luglio 2015, con le proteste dei residenti che hanno dato alle fiamme i mobili destinati agli alloggi, con l’appoggio di attivisti di Forza Nuova in presidio.

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E già solo questo aiuta a capire l’importanza di un progetto come Talking Hands per cercare di cambiare la percezione che molte persone in queste zone hanno di un fenomeno complesso come l’immigrazione. C’è poi una questione legata al metodo. Kabba, 36enne gambiano, mi spiega ad esempio che «per noi non esiste problema di lingua, di religione nemmeno. Veniamo da paesi diversi ma riusciamo a comunicare senza problemi. Lavoriamo tutti con una direzione comune, è facile».

Un’iniziativa come questa, con tutte le imperfezioni del caso, dimostra l’efficacia di un progetto tarato su piccoli gruppi di persone, con obiettivi chiari e un’organizzazione in grado di mettere i ragazzi nella condizione di apprendere un mestiere, utile anche nell’ottica di una possibilità occupazionale futura. L’esatto opposto delle tecniche di gestione dell’ospitalità all’opera in molti centri italiani e del Veneto. Il Cie di Cona, il centro degli oltre 1400 migranti dove a gennaio è morta la giovane ragazza ivoriana Sandrine Bakayoko, da qui dista solo una settantina di chilometri.

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E non siamo lontani nemmeno dalle acque di Venezia, dove Pateh Sabally si è lasciato morire pochi giorni fa, sotto gli occhi di decine di turisti, forse a causa della revoca del permesso di soggiorno per motivi umanitari.La scena ripresa dai cellulari ha fatto il giro del mondo, così come le urla a sfondo razzista che accompagnano alcuni filmati. Inoltre il manifesto affisso solo due giorni fa in sua memoria dal collettivo di fotografi veneziani Awakening è stato strappato subito, da ignoti. Il grande poster ritraeva una scena di preghiera durante la cerimonia di venerdì 27 gennaio davanti alla stazione di Venezia, dove una corona di fiori è stata gettata nel Canal Grande in ricordo del ragazzo originario del Gambia. Ad animare la celebrazione erano proprio molti dei ragazzi di Talking Hands, di cui diversi sono connazionali di Pateh. E le cui vicende sono spesso simili, con l’incertezza di chi potrebbe ritrovarsi clandestino da un giorno all’altro per un permesso negato.

Anche per questo è importante ascoltare le storie che le loro mani ci raccontano.