Quante volte di fronte a una rarefatta composizione di fiori, a un arredo minimale dalle forme lineari e basse, con lampade di carta, ampie vetrate orizzontali e pareti bianche si è pronunciata la frase «è tutto molto zen»? Un commento banale, che lascia intendere però, in modo sottile, come l’essenzialità e la raffinatezza delle forme appartenenti alla cultura giapponese siano entrate nella nostra vita quotidiana. E come queste caratteristiche siano state riassunte con l’esotico, e alquanto sconosciuto, concetto dello «zen», identificando con esso non tanto un pensiero filosofico, buddhista, quanto piuttosto l’intera cultura giapponese, senza alcuna distinzione. Eppure, fino agli anni novanta l’immagine del Giappone era associata al design di automobili, di macchine fotografiche e oggetti di elettronica che una fitta e abile comunicazione, talvolta superiore in qualità a quella occidentale, ci ha fatto percepire come il futuro dello sviluppo tecnologico fosse strettamente legato al lontano arcipelago del Sol Levante.
Il punto di passaggio fu segnato dalla straordinaria grafica delle Olimpiadi di Tokyo del 1964. Il famoso trittico di Yusaku Kamekura, maestro della grafica giapponese contemporanea, raffigurava nei due manifesti laterali un maratoneta pronto allo scatto e un nuotatore in piena gara e nel poster centrale i cerchi olimpici con il sole rosso della bandiera giapponese. Un poster divenuto automaticamente simbolo del nuovo Giappone, rinato dopo la sconfitta della guerra e i duri anni di occupazione e profonda crisi economica e morale, pronto ad affrontare il mondo sulla spinta di una nuova energia creativa.

Dal wakman all’I-pod
Il marchio Sony è senz’altro il frutto più precoce di quest’epoca e tutti ricordiamo il suo walkman che dal 1979, quando fu lanciato sul mercato, ci ha educati alle cuffie alle orecchie, accompagnandoci per quasi trent’anni nei nostri viaggi, prima dei tanti i-pod e cellulari. Altrettanto sono vive le campagne grafiche di marchi quali Nikon, Canon, Minolta per le macchine fotografiche o di Toyota, Honda, Kawasaki nel settore dei motori che hanno occupato pareti e pagine di giornali fino a metà degli anni ’90 con campagne mirate, diverse da quelle dei marchi occidentali. Tutto questo oggi ci risulta scontato anche perché ci si è poi orientati a pubblicizzare la potenzialità reale dei prodotti, facendo passare in secondo piano l’aspetto grafico.

Tuttavia, lo speciale legame che l’Europa (in particolare) ha sempre avuto con il Giappone si è rinnovato sotto altre forme e mentre l’Occidente guarda oggi a Cina e Corea con rispetto, timore e attrazione insieme – visto il potenziale economico e commerciale insieme col peso politico che questi Paesi ricoprono a livello internazionale – al Sol Levante si guarda invece per l’eleganza, la sobrietà e la perfezione che caratterizzano ogni singola creazione nel campo, dell’architettura, del design, della moda, della profumeria e del make-up. Il fascino della tecnologia ha lasciato il campo all’estetica raffinata e semplice delle architetture di Tadao Ando, Kengo Kuma, Shigeru Ban, SANAA; degli oggetti e degli arredi di Nendo, Ken’ya Hara, Yoshioka Tokujin, Naoto Fukasawa; della grafica e del packaging dei prodotti Shiseido; delle sculture tessili e non solo di Issey Miyake e Yohji Yamamoto.

Parigi, Tokyo, Milano sembrano essere il triangolo entro cui questo vortice di bellezza seppur così diversa trova, anno dopo anno, terreno fertile di confronto, nuovi spunti di ricerca e di crescita. E mai come in questi anni i nomi giapponesi hanno dettato il loro stile introducendo nuove regole e affermando nuove estetiche. Lo confermano le sfilate milanesi e parigine e le pagine delle riviste femminili che subito dopo lanciano profumi e linee di designer e stilisti orientali, ma lo ha confermato anche il Salone del Mobile di Milano che quest’anno, nonostante la crisi economica, ha riscontrato una presenza orientale e in particolare giapponese molto rilevante. Accanto ai grandi nomi, la cosa più interessante è stata la partecipazione di tanti giovani creativi, tra cui si è registrata la presenza di molte donne.

L’altro aspetto evidente è la persistenza nell’uso di materiali naturali, il recupero di procedimenti di lavorazione che si rifanno alle tecniche artigianali tradizionali e la creazione di oggetti che pur rispondendo al gusto e alle esigenze contemporanee in qualche modo sono riconducibili a forme e motivi giapponesi classici.

Una peculiarità tutta giapponese, riconducibile a una tradizione in cui il rapporto tra arti maggiori e arti applicate è sempre stato di scambio, fino a che l’influenza occidentale a partire dalla metà del XIX secolo non ha delineato i campi in modo netto e gerarchico. Dove la pittura su grandi paraventi e porte scorrevoli era già di per sé riconducibile a quello che oggi definiamo interior design e spesso utilizzava tecniche di decorazione proprie della lavorazione della lacca o della ceramica; e viceversa gli stessi pittori di questi dipinti erano anche gli artigiani che realizzavano i disegni su vasi, scatole laccate, kimono e tessuti. Un legame così intimo da rendere inscindibile il termine arte dal termine design e che ha portato come risultato a quella stessa cura e attenzione verso ogni elemento del quotidiano, vivente o artificiale, che ha stregato la cultura occidentale.
È forse questo il fascino inesprimibile del Giappone, del volto con cui oggi si presenta a noi che è senza dubbio il design delle cose, dietro cui si cela la ricerca dell’anima dell’oggetto qualunque esso sia insieme con lo spazio che lo contiene e ne definisce l’uso: si pensi alla perfezione del giardino giapponese la cui naturalezza è ottenuta dalla cura del singolo albero, della singola roccia, dall’equilibrio tra ogni elemento presente; o alla capanna del tè dove ogni materiale è assemblato in modo tale da evocare la natura superandola in suggestione: dai singoli utensili quali tazza, teiera, bollitore, frullino, cucchiaino, contenitore per il tè, fino alle proporzioni dello spazio stesso ottenuto dalla combinazione di elementi raffinati e grezzi; o ancora alla cucina dove non solo l’architettura dello spazio e le forme e i materiali di ogni singolo contenitore sono studiati, ma la disposizione del cibo nel piatto o nella ciotola si rifà a regole estetiche precise quanto naturali.

Quello che la cultura giapponese dimostra è un equilibrio con la natura per certi versi opposto e per noi sicuramente difficile da spiegare. Da una parte, Paese di grattacieli e cementificazione massiccia, dall’altra Paese piegato dagli avvenimenti catastrofici in cui natura e opera umana si sono sommati per distruggere, ma contemporaneamente anche Paese dove nulla esiste slegato dal ciclo della natura, sempre pronto a ripartire.
È l’esempio dato con tanto entusiasmo, compostezza e umiltà da un gruppo di sei giovani designer e architetti giapponesi, già affermati a livello nazionale e internazionale, ognuno con la propria attività e un curriculum ricco di collaborazioni e premi importanti, che hanno presentato presso lo spazio della Fabbrica del Vapore, all’interno della mostra Blabla curata da Alessandro Mendini con la collaborazione dell’Università degli Studi di Milano, il progetto Ishinomaki Kobo. Making something new.

 

Quello che era stato realizzato come centro fai-da-te per aiutare la popolazione a riparare i danni fornendo attrezzature e supporto si è poco alla volta affermato come un vero e proprio marchio di produzione che comincia a distanza di due anni a diventare una piccola realtà lavorativa ed economica autonoma e che si è aggiudicato il Japan Good Design Award 2012.  [/do]

Si tratta di un laboratorio artigianale, nato in seguito alla distruzione della città di Ishinomaki avvenuta con lo tsunami dell’11 marzo 2011, che unisce la creatività e le diverse competenze di una ventina di designers, grafici, architetti, alla manualità artigianale di un gruppo di persone del posto per produrre oggetti di legno e tessuto.
Centro fai-da-te
Nato dalla volontà e dall’entusiasmo del giovane architetto Keiji Ashizawa e dagli sforzi congiunti con un altrettanto giovane chef di sushi, Takahiro Chiba, che ha perso la propria attività in quel frangente, oltre che con un gruppo di numerosi amici professionisti quali i designer Taiji Fujimori, i gruppi Drill Design, Spread, Axis Design, Nuno e gli architetti Torafu, quello che era stato realizzato come centro fai-da-te per aiutare la popolazione a riparare i danni fornendo attrezzature e supporto si è poco alla volta affermato come un vero e proprio marchio di produzione che comincia a distanza di due anni a diventare una piccola realtà lavorativa ed economica autonoma e che si è aggiudicato il Japan Good Design Award 2012.

Panche, sgabelli, piccoli tavoli, cavalletti in legno, inizialmente acquisito dove disponibile a metratura ora ricavato dalla stessa area geografica, oggetti multifunzione utili ad arredare la vita di tutti i giorni negli alloggi temporanei, in una città privata di tutto, montabili facilmente e agili da trasportare che esprimono in questa semplicità di forme e materiali l’essenzialità del design giapponese, senza pretesa alcuna. Ma proprio per questo segnando, attraverso la cura, l’attenzione ai particolari e l’armonia che un vero pezzo di design deve dimostrare, il futuro e le potenzialità sociali che il design ha a livello internazionale anche nei momenti di depressione com’è l’epoca che stiamo vivendo.
E mentre Issey Miyake si batte per un museo del design a Tokyo e Ken’ya Hara promuove un nuovo concetto di abitazione orientale coinvolgendo i marchi protagonisti del Giappone contemporaneo, dalle generazioni più giovani del Sol Levante arriva un altro motto più forte e valido per tutti: non dire, ma «fare qualcosa di nuovo».