Chloé ha sempre mal di stomaco, un crampo costante che diventa nevrosi e dal lettino del ginecologo la porta su quello dello psicanalista. Paul l’ascolta, è sedotto dalla sua bellezza, i due si innamorano, lei si trasferisce (gatto compreso) da lui e sembra infine guarita. Poi però succede qualcosa di imprevisto: il biondo e dolce Paul – Jérémie Renier – ha un gemello, Louis, anche lui psichiatra, sono identici ma antitetici, alla bontà di Paul Louis oppone un’indole malefica, lei ne è attratta fino a essere inghiottita da un rapporto che la consuma.

 

 

L’amant double, già da titolo dichiara la sua natura, quel doppio – in Italia si chiama infatti Doppio amore – che attraversa il cinema di François Ozon e che film dopo film lo porta a esplorare terreni emozionali in una dualità che interroga la rappresentazione, la natura dell’immagine – mai come appare – e il ruolo dello spettatore le cui coordinate vengono costantemente messe in discussione. Il suo è un cinema postmoderno, che moltiplica sensi e significati, il modello a cui guarda esplicitamente (e col quale rivaleggia persino) è Brian De Palma, e non nel singolo film (Le due sorelle) ma in una narrazione che dissemina citazioni cinefile sul tema dei gemelli (Croneberg), geometrie e vertigini – Hitchcock, Lang, Polanski – di cui riesce però a controllare con sapienza l’eccesso pure quando appare tale.

 

Il doppio dunque, e gli spettri. Chloé è Marine Vatch, la gelida fanciulla di Giovane e bella, (un doppio del regista?) figura femminile nell’universo ozoniano che prende vita attraverso la sovraesposizione (sottotraccia) tra ciò che è onirico e ciò che è reale, il desiderio nella sua testa e la sua menzogna.

 

È sempre una questione identitaria di generi e di gender, scomoda pure, che conduce qualcuno a definirsi attraverso l’altro, fantasma o duplicazione di sé che sia, come accadeva in Frantz, dove il punto di partenza era il melò, e l’approdo un museo, stesso teatro di questo film, stavolta il Palais de Tokyo a cui «appartiene» Chloé. O in Una nuova amica dove il passaggio è la donna scomparsa fuoricampo moglie di uno, amica dell’altra, la cui «presenza assente» provoca la loro destabilizzazione di genere.

 

Nel thriller su cui si «modella» Doppio amore Ozon spinge il gioco ancora più all’estremo, quasi un paradosso, come quella vagina che all’inizio si dissolve in un occhio: l’immagine è la protagonista coi suoi infiniti frammenti, specchi, riflessi, inganni anche quando messi a nudo di una continua ricerca, ironicamente spudorata, dell’impossibile (forse) identità.