Si intitola Semiotica del gusto (Mimesis, pp. 400, euro 28) il libro in cui Gianfranco Marrone, professore ordinario di Semiotica presso l’Università di Palermo, raccoglie i propri saggi pubblicati negli anni in diverse sedi. Il volume non è tuttavia una mera raccolta di articoli sulla gastronomia, bensì uno studio attento del gusto, senso profondo nell’essere umano come la visceralità e la motricità.

L’apparato più importante, perché realtà e simbolo di ogni processo trasformativo, dalla digestione a qualsiasi «cucina» del senso; il più potente, perché, operando attraverso gli orifizi del corpo, in sinestesia con altri organi, unisce e al contempo separa carne e fisicità, sé e mondo. Il rapporto percezione/giudizio va quindi pensato a partire da questi funzionamenti.
Riverbero della Fisiologia del gusto con cui Brillat-Savarin nel 1825 aveva anticipato – e per certi versi superato – Merleau-Ponty, estendendo le ricerche sulla fenomenologia oltre la vista e il tatto, il volume di Marrone dialoga con le discipline che si occupano di «gusto» – fisiologia, filosofia, estetica, antropologia, sociologia dei consumi. E dimostra che il gusto, con il nutrimento letterale e metaforico collegato, è un «sistema primario di modellizzazione culturale»: luogo silenzioso da cui affiorano immagini sociali e individuali, dove si distinguono, articolano e classificano gli esseri viventi, animali e piante, commestibili o meno, curativi o velenosi, permessi o vietati.

Non dispuntandum

Il gusto fonda il principio stesso della significazione. Significa a prescindere dalla lingua verbale, anzi la precede. Descrivere l’esperienza gustativa è difficile, specie oggi che sono cambiate le aspettative nei confronti del cibo, con la sopravvalutazione mediatica che ne consegue – come Marrone suggerisce già in Gastromania, pubblicato da Bompiani due anni fa.
Il pregio di un’analisi semiotica è di far cadere le evidenze quotidiane e di fornire ragioni del motto condiviso quanto dispotico «de gustibus non disputandum», facendo un balzo utile a guardarci dall’esterno.

Disparità e caos delle sostanze celano somiglianze formali e semantiche: sintagmatiche (avangusto/retrogusto), paradigmatiche (gusto/disgusto) e di espansione contestuale (dal boccone al piatto, dal piatto al pasto, dal pasto all’ambiente).

L’indagine mancata dei nessi che il gusto tesse fra il corpo proprio e l’intersoggettività, annullando l’idea di una coscienza privata e unitaria dell’individuo, è all’origine delle difficoltà di parlare sensatamente del gusto. Marrone discerne quattro accezioni: la prima è che il gusto è anzitutto una proprietà delle sostanze: salato, dolce, amaro, acido; nella seconda, per metonimia, passa a indicare le proprietà del soggetto, quindi le competenze sensoriali. Il gusto agisce come un «tatto orale» che ha nell’olfatto la sua sovrastruttura (il riferimento è a Leroi-Gourhan). Segue l’orientamento corretto di trasformazione delle materie – dalla bocca all’ano – che il disgusto ribalta facendo fuoriuscire sostanze dalla bocca o ingerirne dall’ano; la terza accezione intercettata tracima quindi nel pensiero critico, come riflessione sulla bellezza e sulle arti. Apprezzare o disprezzare è riproporre i processi del corpo a livello sociale e culturale: attrazioni e repulsioni. Infine, la quarta designa l’appartenenza a una comunità: nell’«avere gusto» si condividono piaceri e dispiaceri.

Si pensi alle tensioni sul fatto di mangiar carne. Stiamo dalla parte dei vegani, che contestano i carnivori perché, ingerendo la carne degli animali, divorano l’anima che hanno in comune con noi? Oppure riteniamo di essere tutti cannibali, perché l’uomo mangia sempre un’alterità che riduce a se stesso, in una varietà di credenze e rituali? (Lévi-Strauss).

Parole saporite

L’analogia fra cibo e linguaggio apre a Marrone squarci illuminanti. Nella bocca, cibo e linguaggio si danno per contiguità: mangiare è parlare del cibo come parlare del cibo è farlo passare nella bocca. Già percettivamente, assaporare i cibi, con i denti, la saliva, la lingua, diviene una narrazione in cui i preparativi e le attese valgono, come nell’eros, molto più delle congiunzioni e degli appagamenti. Marrone inverte allora il ragionamento tipico della presa estetica. Non viene prima la sensazione e poi la cognizione, ma è il contrario: la cognizione c’è già e detta gli schemi semantici e culturali della percezione. La sensazione emerge se e quando riesce a schivare questi schemi.

Estendendo al senso del gusto il rapporto fra figurativo e plastico-astratto nelle immagini (Greimas), Marrone distingue il gustoso, che si instaura grazie al riconoscimento sensoriale di figure del mondo già note, dal saporito, dove la sostanza gastronomica, vera istanza d’azione, provoca un nuovo stato di cose, che trasforma sia il soggetto senziente sia la sostanza. La degustazione del vino, per esempio, tende a rimuovere gli aspetti canonici dell’esperienza gustosa a vantaggio di un’ebbrezza del saporito.

Una metodologia precisa fa di Semiotica del gusto un libro di ricerca avanzata: interrogare il gusto non in astratto, ma descrivendo i testi della cultura, che esistono indipendentemente dalle nostre indagini. Per Marrone nulla di più concreto dei testi e di più finto dell’«esperienza», se ritenuta immediata e pura. Nella prima parte del volume l’autore si sofferma sulla ricetta, sorta di spartito per esecuzioni perché luogo contrattuale, negli impliciti (il «quanto basta»), fra le competenze pregresse dell’enunciatore e i saperi dell’enunciatario: un «ingegnere» segue la procedura a menadito; un «bricoleur» è pronto a personalizzare, a imporre un nuovo modello. Ogni ricetta che si rispetti è un’edificazione e una distruzione (Bastide). E mentre propone procedure, regola affetti e passioni. L’esempio scelto è il «risotto alla milanese», fra la sceneggiatura codificata del «risotto patrio» di Gadda (livello della langue) e le varianti di Artusi, di Carlo Cracco e del sito web Giallo Zafferano (livello della parole).

Con le analisi del «vino naturale», dell’advertising del latte e del packaging dei prodotti bio, emerge invece l’ipocrisia dell’ideologia naturalistica, fondata sul principio del levare – meno racconti e più sostanza oscena nelle pubblicità del latte; confezioni senza marca, brutte e volutamente fatte male nelle merci biologiche. Per Marrone il «bio» è un metabrand che si è sostituito a quello della glaciazione dell’industria alimentare (merendine, surgelati, scatolame), quando il progresso contrastava una natura supposta matrigna. La «natura» è un discorso di marketing che fa finta di essere discorso politico ecologista, non solo in cucina, ma nel turismo, nella religione, nel design, nel pensiero urbano.

Lentezze vitali

Un concetto permea tutti i saggi e si impone nelle analisi del Food Porn, dove la pietanza, ipertrofica, è sempre sola, di Masterchef, in cui rivalità fra i concorrenti e sevizie dei giudici denegano i piaceri del cibo, e del suo logo, a confronto con i loghi che sovverte: la lumaca di Slow Food e gli archi dorati di McDonald. È il concetto di tavola, che conta non per il km zero, ma per la commensalità di cui è il simulacro.

Il manifesto dello Slow Food (1987), pubblicato sul Gambero rosso allora supplemento de il manifesto, invitava, contro la fast life, a rallentare i ritmi, nel recupero di un godimento del cibo che restava però individuale. Marrone rivendica invece, anche rispetto alle ansie della dietetica, la positività della forma di vita del gourmand, il cui corpo, sensazioni gustative incluse, è sempre il corpo dell’altro teatralizzato: le cene di Marinetti, fatto sociale totale, anche se lì è il disgusto a veicolare la ricostruzione dell’universo.

Semiotica del gusto rovescia insomma lo scenario della condanna platonica: il cibo non può essere un oggetto che si consuma ingoiandolo né lo strumento con cui qualche sofista riempie lo stomaco e annebbia la mente. È andare alla ricerca di bontà, ripugnanze e insipienze nelle cose come nelle persone.