Dopo giornate passate a scrutare i bollettini Covid, a destreggiarci fra mascherine e permessi, a chiederci quanto durerà uno stato di emergenza sempre più simile a una nuova normalità, abbiamo voglia di ritrovare sulla pagina di un libro personaggi costretti ad affrontare le nostre stesse pene? E scrittrici e scrittori sono capaci di trattare in modo credibile una situazione che ha trasformato la nostra vita quotidiana, ma che è ancora fluida e riserva ogni giorno nuove preoccupazioni e nuove regole? È da queste domande che prende avvio Lara Feigel sul «Guardian» per dare conto dei primi romanzi composti durante l’era pandemica e arrivati ora in libreria, giusto in tempo per essere regalati in festività prevedibilmente non allegrissime.

C’è per esempio Burntcoat della britannica Sarah Hall, autrice di testi narrativi (alcuni tradotti in Italia, fra cui Ritratto di un uomo morto per Gran via). Avviato il primo giorno del lockdown di primavera, nel 2020, e pubblicato da Faber, il romanzo ha al centro un uomo e una donna, la scultrice Esther e lo chef immigrato Halit, che sono diventati amanti da poco e si ritrovano a sperimentare forme di intimità nuove e paurose in un mondo sconvolto dalla malattia. Per Hall, che proprio in questi giorni ha contratto il Covid («con una sorta di terribile appropriatezza», commenta Feigel), «il virus ha agito come una forza chiarificatrice», esponendo le storture della società, e insieme alimentando un’imprevedibile euforia.

Diverso, come si può intuire, il taglio che l’irlandese Roddy Doyle ha dato alla raccolta di racconti Life without children (Cape 2021) scritta tra una clausura e l’altra. Non solo l’autore dei Commitments guarda al mondo pandemico «con curiosa allegria» mettendone in risalto le stranezze linguistiche (pare che nei negozi di Dublino la gente chieda «una misura e mezza di distanziamento sociale in compensato»), ma si permette perfino qualche lieto fine: «La coppia che si innamora di nuovo durante l’isolamento. Il padre che sistema le cose con suo figlio. L’amata che non muore – non adesso», riporta ancora sul «Guardian» Katy Guest, aggiungendo che nel libro di Doyle «il dialogo c’è, pure in una pandemia».

Ma questi titoli (e altri appena usciti, come The Fell di Sarah Moss e il thriller 56 Days di Catherine Ryan Howard) sono solo l’avanguardia di un filone narrativo che si annuncia fiorente. Molto atteso è in particolare il romanzo collettivo Fourteen Days (uscita prevista nel settembre 2022): fra i nomi elencati nella scheda editoriale – più di 25, e pare ce ne siano altri – Margaret Atwood (che si è assunta l’onere di coordinare il variopinto squadrone), R. L. Stine, David Byrne, Louise Erdrich, Neil Gaiman, Rachel Kushner, Scott Turow. Fortemente debitrice a Boccaccio la trama: «Una settimana dopo l’inizio del primo lockdown, gli inquilini di un caseggiato del Lower East Side a Manhattan iniziano a riunirsi sulla terrazza condominiale e a raccontarsi storie. Ogni sera, il numero dei partecipanti, muniti di sedie, cassette del latte e secchi rovesciati, aumenta e a poco a poco gli inquilini – alcuni dei quali prima si salutavano a stento – fanno amicizia…».

Regala invece sfondi esotici l’intreccio di un altro romanzo pandemico fresco di stampa (e i cui diritti sono già stati venduti a Netflix), Wish You Were Here di Jodi Picoult, la cui eroina si ritrova per caso ammarata nel lockdown delle Galápagos, dove (citiamo dal sito della radio americana Npr) «dovrà sopravvivere in un luogo senza una stabile connessione internet e un servizio telefonico affidabile».
E altri ne verranno, di romanzi pandemici, alcuni forse bellissimi. Ma diciamoci la verità, non ne avremmo fatto volentieri a meno?