«Gli unici punti di riferimento sono poche immagini scampate». Con queste parole, incollate su un pannello nella sala espositiva allo Spazio Forma di Milano, Antoine d’Agata ci offre il filo d’Arianna per viaggiare nel labirinto della sua mostra, parole che risuonano come una eco lontana di un disastro dell’essere. Il pannello che riporta la frase è un po’ nascosto, lasciato all’eventuale scoperta del visitatore, come un vademecum compassionevole dimenticato o buttato lì, sperando che qualcuno lo raccolga nel percorso della mostra, o meglio sarebbe dire, nel cammino che ognuno potrebbe fare in questa occasione per calibrare lo sguardo su una storia solitaria, estranea alla media convenzionale. Per farne un’esperienza, per perdere le indicazioni della visita e allora vagare da un pannello all’altro, in attesa che, finalmente, si liberi in noi un sentimento empatico, che emerga l’emozione di una compassione dell’umano più a nudo del nudo e che infine si possa cominciare a formulare un pensiero o a provare un’emozione che non siano il frutto più prevedibile del pregiudizio o della curiosità morbosa.
Perché la mostra è dura e difficile: il lavoro di Antoine D’Agata è da sempre sul bordo della convenzione morale e sociale, coraggiosamente a nudo nella sua ricerca di esperienza erotica e estatica. Mon coeur mis à nu scriveva un suo antenato, Charles Baudelaire, anche lui sperduto essere umano scorticato, in disperata comunione con l’altra faccia del mondo.
Anticorpi
è, infatti, il titolo, a doppio senso, della mostra presso la Fondazione Forma per la Fotografia (in collaborazione con Le Bal di Parigi e il Fotomuseum Den Haag, visitabile fino al 1 settembre) e del libro (2500 fotografie, eds Barral).
Anticorpi nel senso di protezione dall’invasione virale? Cosa si vuole allora neutralizzare in questo andamento serpentino, sinuosamente e insinuosamente circolare? A quali virus si fa allusione? E, al contrario a quali corpi definiti nelle loro forme, precisi, riconoscibili, si oppone questa infinita serie dell’informe corporeo colto negli spasmi dell’orgasmo? In mostra le fotografie si affollano a wallpaper e poi si dilatano nei grandi formati, si riducono al 18×24 nelle serie più intime, si chiudono su se stesse nel silenzio opaco delle camere d’amore, sono in dialogo con le lunghe frasi delle donne aperte al sesso come ferite o come fiori. La claustrofilia degli spazi dell’eros, dove forme aggrovigliate si diluiscono come acquerelli su fondi compatti, si accompagna alle catalogazioni ben definite e precise di case punteggiate da finestre infinite dei suoi primi lavori.
Due pareti di fotografie segnaletiche, depositate negli archivi polizieschi e strappate a internet, precisissime nei dettagli, serialmente riconoscibili nella dimensione e nella distanza della ripresa, fanno da contrappunto a una serie di mucchietti di ossa spoglie, resti informi di genocidi contemporanei , compassionevolmente fissati in bianco e nero. Sullo sfondo delle due serie segnaletiche, Antoine D’Agata mette volutamente in fila una serie fotografie tratte dal suo lavoro Stigma sul corpo estatico al culmine del godimento erotico, che è invece corpo plurale, corpo informe e solo vagamente individuabile nello spappolamento fotografico di arti e teste.
Ecco: forse, il senso del titolo sta nell’opporsi del corpo descritto, definito, inscritto in nomi e misure della segnaletica al corpo del desiderio carnale, claustrofilico, protetto dall’oscurità intima e soffocante della camera chiusa.
La definizione formale del corpo e del volto umano è da ascrivere giustamente alla catalogazione sociale, mentre quello del desiderio è senza nome, né volto e non ha luogo di residenza: è universale, ci dice in questo modo l’autore. Da sempre, il corpo è il soggetto, l’oggetto, la preda e la spoglia dello sguardo di D’Agata. Da quando giovane punk marsigliese cercava una via di fuga nella fotografia e poi, più tardi, quando all’Ici di New York seguiva, non a caso, le lezioni di Larry Clark e di Nan Goldin che sul corpo hanno fondato la loro ricerca formale.
Contrariamente ai suoi maestri, D’Agata percorre piuttosto la strada individuata da Bataille nello sperimentare i limiti opposti dell’esperienza del corpo per scardinare il pensiero occidentale della norma. Da parte sua, mette in scacco la conformità della figurazione fotografica. E non sembra qui il caso di fare riferimento alla pittura di Bacon poiché l’intento, anche etico, è di trovare un punto d’origine, un luogo che sia al contempo il senso della sua vita e di quella dell’altro. Mentre cerca la via di un’estetica liminale, esprime anche la volontà di una dichiarazione politica.
È nell’incontro intimo con l’altro, incontro che ha da essere libero dall’imposizione del comportamento sociale, che D’Agata trova la pacificazione. Pace tuttavia destinata a svanire e a ricomparire senza sosta.
La mostra mette in scena quest’oscillazione e questa contraddizione del corpo chiuso nel suo limite individuale (la fotografia segnaletica) in relazione ai momenti nei quali si perde nell’informe dell’incontro sessuale o dell’estasi dolorosa nei riti religiosi. Un lavoro estetico, ça va sans dire, ma anche e soprattutto un lavoro politico, come ben dice questa sua dichiarazione. «Solo un’arte molesta è valida, sovversiva, asociale, atea, erotica e immorale, antidoto all’infezione spettacolare che neutralizza gli spiriti e distilla morte».