Perdutamente (pp. 148, euro 12) è il romanzo d’esordio di Ida Amlesù, edito da Nottetempo. La perdita è sicuramente una delle cifre del testo: si perde il fiato leggendo la sintassi sincopata, affannata, che sembra aggrapparsi alle ripetizioni, per ribadire l’assenza di senso nella vita e per aderire allo smarrimento come unica soluzione al dolore.
La protagonista del romanzo, voce senza nome, bambina, poi adolescente, infine ragazza, racconta la sofferenza di abbandoni ripetuti, ma non lo fa scegliendo la forma narrativa, perché i romanzi che raccontano la vita ordinaria non le piacciono: non trova niente di interessante nel tentativo di descrivere l’esistenza dicendo cose come: «passami il sale» per esprimere tutt’altro. I libri così rispondono, secondo lei, al desiderio di fare della vita un documentario, ma «i documentari migliori sono quelli sugli animali».

AMLESÙ PROVA a cimentarsi in tutt’altra tecnica, che si potrebbe definire del flusso dell’inconscio più che della coscienza. La sua scrittura è infatti frastagliata come i sogni e nebulosa, ma questa nebbia sembra essere messa appositamente per celare i nuclei di senso che la narratrice vuole condividere, densi come la vita vissuta: «dopo la prima felicità non si riesce a desiderarne un’altra se non quella avuta e poi persa».
La ragazza senza nome al centro del testo ha amato perdutamente e in nome di questo sentimento si è persa a cercare e ad aspettare l’oggetto d’amore. In questo tempo di attesa e di affanno ha aderito ad esperienze di perdizione che ci vengono a volte descritte con estrema chiarezza: alcol, depressione, dipendenza, a volte attraverso simboli potenti. Per esempio, quando abbandona il suo amore e incontra il Diavolo, lei e lui si troveranno senza denti aggrappati ad una bottiglia e le scene del loro connubio rimandano al trash e alla psichedelia dell’eroina.

L’istanza religiosa nel romanzo è onnipresente, utile alla narratrice per rappresentare il compenetrarsi ineluttabile tra il bene e il male: il Diavolo e l’adorato Volodja, il Diavolo e l’amore assomigliano a Cristo e sono entrambi «uno e trino». Se non bastasse, anche l’immagine della «statua del santo» che ritorna varie volte nel romanzo, ha gli zoccoli del diavolo, per non contare il ritorno ossessivo dei pesci, che rimandano a Gesù e alla difficoltà così profonda del suo messaggio, enigma che il testo sa restituire con sensibilità finissima.

DEL RESTO LA PROTAGONISTA è per amore che si perde. O è per non smettere di perdere se stessa che si dedica anima e corpo all’inseguimento dell’Altro? Il riconoscimento di questo meccanismo psicologico è espresso da Amlesù quando conclude che tutti i suoi amori «erano un unico grande amore, e questo amore aveva un nome, e questo nome era Mancanza». È la storia di una donna che ha rischiato la pelle per arrivare a capire che l’Altro era così necessario, quanto grande era il vuoto che doveva colmare. Il dono che ci fa di questa consapevolezza e di altre vale lo sforzo di non perdere il filo della sua scrittura.