Doclisboa si è chiuso con un doppio annuncio: i premi e la nuova direzione, Joana Gusmão, Miguel Ribeiro e Joana de Sousa, tre giovani «cresciuti» nel festival che prenderanno il posto di Cintia Gil nominata alla guida dello Sheffield Doc/Fest. Che edizione è stata questa 2019, le cui immagini sono rimbalzate negli schermi della capitale portoghese, con molti sold out e un’ampia partecipazione internazionale a conferma della centralità conquistata dal festival tra i filmmaker indipendenti nel mondo? Politica, soprattutto, se intendiamo il termine non semplicemente riservato ai «soggetti» ma come segno di una ricerca che dell’immaginario prova a illuminare le zone autonome, che si fonda sui linguaggi scelti per confrontarsi col mondo, sull’invenzione di forme capaci di restituirne i conflitti, la tenerezza, le memorie, una storia personale e insieme collettiva.

E UNA dichiarazione poetica e politica sono le due retrospettive presentate in questi giorni, una dedicata a Jocelyn Saab (a cura di Davide Oberto), regista, fotografa, giornalista, intellettuale raffinata, femminista, scomparsa quest’anno, i cui film compongono a partire dal «suo» Libano, passando per Siria, Palestina, Egitto, Kurdistan iracheno, un racconto in profondità del medioriente tra contraddizioni, ambiguità, bellezza. E l’altra al cinema della Germania est – Repubblica Democratica Tedesca – prodotto prima della caduta del Muro, un immaginario cancellato dalla riunificazione – e di fatto dalla scomparsa di quel Paese. Rise and Fall of the Wall. The Cinema of East Germany (programma composto da Agnés Wildenstein) ne mostra la vita quotidiana, i gesti semplici come le chiacchiere tra le operaie in Laundresses (1972) di Jurgen Böttcher – di cui sono stati mostrati molti film – l’amore adolescente (First Love, 1984 di Konrad Weiss) i paesaggi attraverso le voci di fantasie, sogni, desideri di alcune donne (After Winter comes Spring, 1988, di Helke Misselwitz) rivelando al pubblico più giovane registi di grande talento, poco conosciuti, capaci di spalancare spazi di libertà formale – dunque politica – nelle loro opere nonostante il controllo della censura, che appunto la fine della Rdt ha fatto sparire – con qualche eccezione tipo Volker Koepp, di cui è stata proposta la magnifica serie di Le ragazze di Wittstock e Thomas Heise.

In questa linea si muove anche il film vincitore nel concorso interrnazionale, Santikhiri Sonata di Thunska Pansittivorakul, esempio di un cinema di confine, al di là dei generi – che poi è quello prediletto dal festival lusitano – in cui finzione, biografia, documentario si fondono per restituire la realtà nelle sue infinite sfaccettature. All’origine, come spiega il regista, ci sono alcuni suoi ricordi da ragazzino, negli anni Ottanta, durante il governo del generale Prem. «La televisione diffondeva propaganda persuadendo i thailandesi che l’ordine imposto dai militari era un modo per proteggere il Paese. E questo rafforzava un crescente sentimento di nazionalismo».

SANTIKHIRI sono le «le colline della pace» che il regime cancellò col pretesto che erano posti pericolosi, di traffici e di criminalità. Nel villaggio che non esiste più, si inseguono frammenti di storie, un passato rimasto sepolto, un presente che non ricorda. Il regista dispiega umorismo, tragedia, sentimenti mentre da ogni parola affiora quella memoria di una repressione attuata contro dissidenti e oppositori politici, i comunisti in particolare, di eccidi e massacri. Un tempo che la narrazione «ufficiale» ha messo da parte, sepolto nel silenzio, condannato all’oblio.
L’esperienza personale è anche il punto di partenza per When the Persimmons Grew (Quando i crescono i cachi) di Hilal Baydarov – nella sezione di ricerca New Vision, in cui è stato premiato Serpentário di Carlos Conceiçao. Nel concorso portoghese il primo premio è andato a Viveiro di Pedro Felipe Marques.

BAYDAROV torna nel suo villaggio, in Azerbaijan, dove il tempo è regolato ancora dalla terra, dalle stagioni, estate, inverno, dall’attesa, dal raccolto. È il momento dei cachi, la famiglia è riunita, c’è aria di festa. Il regista si sofferma sui movimenti, sui corpi delle persone e mentre le sue immagini si fanno coreografia dell’esistenza dell’intero villaggio, il suo filmare indaga nei propri sentimenti: la nostalgia di non essere più lì, la scelta di partire, la figura della madre che diviene centrale nella trama del film. Nell’istante sospeso di questo ritorno scorre il cinema fatto di pazienza, di rischio, di desiderio.