Al principio era Anaïs Nin e i corpi fiammeggianti tratteggiati nei suoi libri, l’esperienza di una donna che aveva condotto fino all’estremo confine la propria sapienza erotica e amorosa. Quando nel 1966 l’editore Harcourt Brace cominciò a pubblicarne i diari, l’arco temporale che copriva i trent’anni precedenti corrispondeva a una mole di scritture, ancora oggi inaggirabile, per quante e quanti si interroghino su cosa significhi mettere in parole desiderio, sessualità e amore. Come H. D. Lawrence, abitato da alcuni strani «dei» al centro del corpo, Nin intravvede – insieme all’autore de L’amante di Lady Chatterley, a cui non a caso dedica un volume nel 1931 – un delta di Venere costellato di giochi e asperità, difficile da ingannare.
Lungi dall’essere rubricato come freudiano continente oscuro ed enigmatico, il desiderio femminile appare un lento e inesorabile territorio in cui sperimentare il proprio corpo. Non è chi si desidera, si chiami June Mansfield o Henry Miller, né il modo in cui si agisce la sessualità a riservare tranelli e sconcezze ma la mente, quando attiene a un’operazione disincarnata per diventare «giocoliere abilissimo che può tenere tutto in equilibrio e farlo cadere al suo posto»; quando la mente disinnesca e disinfetta il corpo di cui pretende di non doversi occupare se non come dato di una banale e talvolta imbarazzante deiezione.

LA POTENZA ROVINOSA di una simile separazione viene offerta già superata e ricucita da Anaïs Nin. Eppure il fatto di intervenire su sessualità e amore, lasciando a intendere che se si parla della prima si debba sempre convocare il secondo o viceversa, non è privo di insidie. Mai abbastanza sono le parole spese da letteratura, arte, filosofia e storia delle rappresentazioni per quanto riguarda la sessualità. Spesso troppe quelle adoperate per l’amore, soprattutto quando viene celebrato nelle sue molteplici definizioni, canti, contemplazioni e proiezioni senza il benché minimo tratto di esperienza diretta e repentaglio.
Per restituire la forza di un sentimento e la sua carica erotica, secondo il filosofo Francis Wolff si deve provare a costruirne una geografia evidente. Non esiste un amore perfetto (Ponte alle Grazie, pp. 120, euro 10, traduzione di Vincenzo Ostuni) vuole essere una piccola storia delle variabili che concernono l’amore romantico, insieme alla possibilità filosofica di cesellarne i concetti limitrofi. Nel caso specifico, amore e passione, desiderio e amicizia, si trovano impigliati in una forma geometrica che va a rappresentare strazio, appagamento e fragilità delle relazioni umane. Ogni storia ha un suo speciale colore, la filosofia ne può indovinare il tenore, Wolff ne è sicuro, senza scadere in una dietetica affettiva da quattro soldi. Non interessa stabilirne la formula esatta, la sua ambisce a essere una posizione trasparente e luminosa sull’incompletezza di prendere parola su un tema simile.

Allora forse bisogna misurarsi reciprocamente, come succede in I love Dick (Neri Pozza, pp. 300, euro 17, traduzione di Maria Nadotti) di Chris Kraus. Scritto nel 1997 consegna la storia di una coppia sposata: Chris, 39 anni e appassionata di arte, e Sylvere, 57 anni e docente universitario che ama teorizzare sul post-moderno, e del loro incontro con Dick, un attraente sociologo. Tra Chris e Sylvere il sesso è un lontano ricordo. Al suo posto, come spesso accade anche se è sconveniente da confessare, c’è una impalcatura al limite del setting terapeutico in cui si setaccia, sminuzza e sollecita ogni virgola, punto e a capo e movimento di se stessi, nella letale necessità di raccontarsi tutto. E di decostruirlo, il tutto, in una radiografia che resta pura investigazione intellettuale; quella fandonia – a cui sarebbe bello credere – secondo la quale se l’intelligenza si erotizza allora il resto «chiaramente» segue. In realtà quel «resto» è un piano costantemente in perdita, non è affamato solo di parole. Viene infatti convocato spesso, il corpo, eclissato da una puntuale fenomenologia dell’amore empirico in cui l’esperienza sembra però una lotta contro il sentirsi prossimi, toccarsi. Anche quando Dick, incontrato per caso, riaccende le fantasie di Chris che per pochi istanti si avverte quasi desiderabile. L’ossatura del libro sono lettere, quasi mai spedite, in cui si dicono, negano, ribaltano questioni che dovrebbero attenere all’innamoramento per il povero e ignaro sociologo. C’è da domandarsi se l’allusione del titolo non fosse da percorrere con maggiore decisione. Per liberare Dick dall’incombenza di essere diventato a sua insaputa un gingillo fantasmatico e cominciare dal suo omonimo minuscolo, dick, forse meno pretenzioso.

EPPURE, NEL TRAGITTO dei corpi di cui l’esistenza tende a cercare ragione, nell’imperfezione di ciò che accade – come ci ha insegnato Anaïs Nin -, ciò che emerge è più uno spazio sensuale in chiaroscuro che appartiene al piacere, senza rinunce troppo punitive. Cerca di farlo anche Emily Witt in Future sex (minimum fax, pp. 242, euro 19, traduzione di Claudia Durastanti), la storia raccontata è la sua, alla fine di un rapporto importante che la lascia smarrita all’età di trent’anni dinanzi alla enormità di poter avere tutto a disposizione. La mappa che emerge è al passo coi tempi presenti, che se sono nuovi nelle pratiche non è automatico siano migliori. Il ritmo della peregrinazione segue quello di vari esperimenti che Witt fa propri, intrecciando nuove e tecnologiche modalità di incontro, l’esigenza di confrontarsi con le declinazioni del porno, infine lo yoga foriero di orgasmi, perché in fondo è «un modo stupido di vivere, quello in cui non ci si poteva fidare della forza del desiderio e basta». Si accede a un interstizio in cui vivere la sessualità diventa complessa scoperta di se stessa, in un futuro che non è carico né di accordi né di legami duraturi: «la tecnologia in sé non prometteva nulla. Poteva portare le persone da noi, ma non diceva niente su cosa dovevamo farci». In quale posto si colloca allora questa sorpresa, senza il rischio che diventi un agonismo privo di relazionalità?

Alla metà degli anni Cinquanta, la protagonista di Histoire d’O (scritto da Dominique Aury con lo pseudonimo di Pauline Réage) costruiva il desiderio seguendo le richieste del suo amante, facendole proprie in un ciclo di piacere e dolore, dominazione e sottomissione. Una ingiunzione maschile da imparare per osmosi. Adesso, quella che ci consegna Valeria Parrella nel suo Enciclopedia della donna. Un aggiornamento (Einaudi, pp. 119, euro 14) ne è la contro-storia in forma di breve e intensa parabola. Amanda non segue nessuno tranne se stessa, è creatura dal lessico forbito e avvertito che alle sue studenti nasconde nelle dispense di architettura Donna clitoridea e donna vaginale di Carla Lonzi.

VA ALLA CONQUISTA disinvolta del proprio soddisfacimento sessuale in un divertimento che sia anzitutto fisico, anti-romantico ma assai orgasmico e preferibilmente penetrativo, sia in solitudine che in compagnia. Di uomini e donne. Certo non sono le stesse peripezie di una Justine in stile De Sade, quelle della Amanda di Parrella hanno un incedere quasi pop e di chi sa tenere la libertà nelle proprie mani. La seduzione diventa una perdita di tempo, i preliminari una noia da evitare quando non si ama fortemente, è infine una esorbitanza dei sensi, divertissement che va a completare i capitoli della storica Enciclopedia e di cui però Anaïs Nin avrebbe voluto sapere di più. Dei giochi, delle pratiche e delle esperienze di Amanda.
Perché in fondo il desiderio si esercita attraverso ciò che piace fare, ricevere e fantasticare. Diventa trasformativo quando si ha l’ardire di condividerlo, non silenziandone il corpo.