Possiamo anche comprendere, dopo la tragedia di Parigi, la campagna di enfasi sui valori dell’Occidente scatenata dai media della vecchia Europa. Possiamo anche essere indulgenti, dopo lo shock del 13 novembre, nel leggere l’infedele lista di virtù e primati che la parte del mondo dove tramonta il sole vanterebbe sul resto di popoli della terra. Partecipiamo dello stesso dolore e risentimento per l’aggressione subita, e conosciamo anche l’insuperabile superficialità dei nostri media, la propaganda politica camuffata di informazione ed analisi.

Ma la lista dei nostri valori è infedele e incompleta non solo perché si limita a ricordare la libertà individuale, lo stile di vita, il rispetto della donna e pochissime altre cose. Manca dall’elenco la retorica da primato, la capacità di autoassolversi, l’incapacità congenita di comprendere le ragioni dell’altro. E latitano di fatto anche conquiste positive che effettivamente possediamo: lo spirito critico, la capacità di analisi storica. Queste ultime dovrebbero rammentarci che dentro l’Occidente è fiorita e prospera da secoli la malapianta del razzismo, che anzi l’Occidente stesso nasce come colonialismo, distinzione e sopraffazione dell’altro. Noi datiamo l’inizio dell’Età moderna e dunque la fondazione dell’ Occidente con la scoperta delle Americhe, col completamento, a Ovest, della conoscenza del globo. Ma dimentichiamo che quell’avvio dell’occidentalizzazione del mondo coincide con lo sterminio delle popolazioni native: «Il più grande genocidio dell’umanità», come lo ha definito Tzevtan Todorov.

Certo, non è questo il momento di andare così indietro nel tempo. Del resto, basterebbe rammentare le vicende recenti, a partire dalla prima Guerra del Golfo, come hanno fatto pochi onesti commentatori, capaci di pensare prima di scrivere. E tuttavia oggi bisogna rinserrare i ranghi e predisporre le difese per evitare che la tragedia si ripeta. Ma è in questi momenti che la mancanza di analisi critica, di lucidità, di onestà storica può indurre a compiere errori fatali. E allora, chiediamo: qual è il senso dell’espressione “scontro di civiltà”, aggiornato a “guerra di civiltà”? Guerra di civiltà? Ma l’Occidente non ha mai smesso un istante di fare guerra agli altri da quando è sorto e si è autodefinito come tale. L’espressione non è solo un capovolgimento clamoroso della realtà storica, è una rappresentazione del presente infondata sino al ridicolo. E’ come se due entità alla pari, per l’appunto due civiltà, si fronteggiassero per conseguire un primato assoluto. Ma non è così. In realtà quello che un tempo era Oriente – ricordate Edward Said ? – e ora chiamiamo Islam, non è che un mondo sconfitto, culturalmente annichilito dal dominio dell’Occidente.

L’immaginario che noi abbiamo costruito si è ormai imposto come l’unico orizzonte di possibilità a tutti i popoli della terra. Le grandi masse di religione islamica non hanno altra prospettiva che essere assorbiti dai valori e dagli idoli scintillanti della nostra società. Sono lì, condannati a diventare come noi. Ma non è solo da tale immenso accampamento di sconfitti che partono le imprese disperate dei terroristi. Al suo interno le élites musulmane non disdegnano, com’è noto, di assaporare le ebbrezze delle nostre Ferrari. Perché anche l’Islam è diviso in classi, lacerato dalle disuguaglianze.

Tale realtà è vera e nota da tempo. Quel che cambia, quel che oggi appare più esemplarmente visibile, è l’intimo nichilismo del nostro messaggio. Un nichilismo che ha lo stesso volto per i giovani europei, bianchi e cattolici come per i ragazzi musulmani della banlieue parigina. Al di sotto delle fantasmagorie del consumismo, le società capitalistiche del nostro tempo svelano la desertificazione di senso a cui sono approdate. Non hanno nessun progetto di futuro da proporre, nessun nuovo assetto di civiltà con cui attrarre e sedurre culture altre. Tanto meno i giovani musulmani di seconda generazione, senza lavoro e senza opportunità.

Qualcuno si ricorda più dell’american dream, del sogno americano? Oggi negli Usa, come in Europa, le nuove generazioni hanno la certezza che non potranno contare sulle stesse opportunità e i vantaggi dei loro padri. Di quale protezione sociale godranno una volta anziani? Quale certezza di occupazione e di reddito, di stabilità nel lavoro, nelle relazioni umane? Quale messaggio di solidarietà, di superiore assetto del vivere in comune, di felicità collettiva lanciano ad esse le élites dell’odierno capitalismo? Tutto ciò che la sua parte più avanzata può offrire di seducente alle nuove generazioni è un nuovo prodotto tecnologico da godere in consumistica solitudine.

Perfino il nostro avvenire sul pianeta, a causa dell’esaurimento delle risorse e del riscaldamento globale, appare minacciato. Per il resto, l’intero tessuto della società così come l’abbiamo conosciuta viene frantumato, risucchiato negli scambi di mercato. Ci ricordiamo ancora della nota esclamazione di Margaret Thatcher, «non c’è alternativa»? Non era solo un invito a desistere dalla lotta rivolto al movimento operaio e alle sinistre. Era, ed è ancora, uno sbarramento degli orizzonti dello stesso capitalismo, che non ha più nulla da offrire, se non il mondo così com’è.

Eppure l’ Occidente per qualche secolo, mentre schiacciava altri popoli, ha tenuta alta la bandiera del progresso, almeno per i propri. Oggi non accade più, non si va avanti, si torna indietro. Perciò nel senso in cui si utilizza oggi il termine, Occidente è una moneta scaduta, non ha più corso. Dovremmo essere onesti e dire la verità. Il messaggio di morte dei terroristi è figlio legittimo di questo capitalismo predatore e senza speranza.