L’orizzonte è quello del deserto, una distesa infinita grigia, piatta la cui sola ricchezza è il sale. Che è ovunque, trovarlo è semplice, basta sollevare appena la superficie secca della terra. Siamo nel Piccolo Rann di Kutch, cinquemila kilometri quadrati di deserto salino che si estende nel nord della regione indiana del Gujarat. Per otto mesi all’anno questi luoghi desolati divengono la meta dei lavoratori del sale. Migliaia di persone che lasciano i loro villaggi, da generazioni e anno dopo anno, e si accampano lì, affrontando fatica, vita durissima, con poco cibo e senza elettricità per estrarre il sale, la loro unica possibilità di guadagno. Tra questi ci sono anche Sanabhai e la sua famiglia, la moglie, i figli, due bambini di undici e di otto anni, che affrontano i lunghi mesi nel deserto attrezzandosi come possono. Uno specchio serve per comunicare a distanza utilizzando la luce del sole, l’acqua arriva con un camioncino una volta a settimana e deve bastare a tutti. La donna cammina ore nel deserto cercando qualche ramo per accendere il fuoco. Sono soli, la famiglia più vicina è a centinaia di metri distanza che nel deserto diventano una lontananza impossibile. I ragazzini vanno a scuola, e ogni mattina dopo avere lavorato, affrontano il cammino verso quell’edificio nel nulla intorno al quale sono stati piantati fiori di carta …
My name is Salt è il primo film di Farida Pacha, indiana, studi in America, che ha vinto molti premi, tra cui il migliore esordio all’Idfa, il Festival del documentario di Amsterdam, e ora è in concorso a Cinemambiente di Torino (fino al 5, www.cinemambiente.it).
«Sono attratta dalle storie che permettono di esplorare filosoficamente la condizione umana. La vicenda di Sanabhai appare come un miraggio in cui possiamo cogliere l’antico mito di Sisifo, che amava a tal punto la vita che dio lo condannò a lavorare senza una tregua. Il lavoro diventa nell’esperienza di questi uomini la sola dimensione che gli è concessa. Ma qual è il significato di questo lavoro? E quale è la sua relazione con l’esistenza di ciascuno? Mi sono posta queste domande quando ho deciso di filmare Sanabhai e il mondo che gli stava intorno» racconta la regista.
Il film non esce mai dal deserto nel quale alla fine della stagione, con l’arrivo dei monsoni i cristalli bianchi e accecanti del sale si sciolgono nell’acqua, e con essi le speranze almeno fino all’anno successivo di sopravvivenza delle persone. Ci parla di miseria insopportabile, di sfruttamento, di cosa è il mondo nell’epoca del neoliberismo e della globalizzazione. Al tempo stesso però, con intelligente sensibilità, evita lo stereotipo del miserabilismo sempre in agguato quando la macchina da presa si confronta con tali realtà. La dimensione verso la quale sembra tendere Farida Pacha è quella del cinema in cui cerca una corrispondeza visuale al suo racconto per non schiacciarlo nella banale frase fatta, o in una immagine della povertà che spesso calpesta, o soffoca anche i suoi protagonisti.
È quello che appare anche lo sforzo del festival torinese in corso questi giorni. Il titolo ci dice appunto che si parla dell’ambiente, ma lo sguardo che attraversa la selezione dei film prova a allargarne i riferimento. L’ambiente è laddove si mette alla prova l’economia del mondo, i suoi conflitti, le contraddizioni. Quanto interessi delle politiche di governi e multinazionali potenti stritolano le vite delle persone. L’ambiente è il quotidiano di popoli e paesi, lo scontro, la resistenza, la repressione.
Nel cartellone ci sono film come Buongiorno Taranto (concorso doc italiani) di Paolo Pisanelli, non solo la nuvola avvelenata dell’Ilva a Taranto, e un mare, un paesaggio, una città condannati. Ma anche le contraddizioni, la scelta tra lavoro e malattia, ciò che significa attraverso questo estremismo la precarietà lavorativa e esistenziale del nostro tempo.