La civiltà ha le sue fondamenta nel sottile strato superficiale di suolo che ricopre parte del pianeta». E «la salute dei popoli che ci vivono non può essere separata dalla salute del suolo stesso», ne è, anzi, intrinsecamente dipendente. Non c’è alcuna forma di enfasi nella considerazione di Lester Russel Brown, fondatore del Worldwatch Institute e successivamente dell’Earth Policy Institute. Risorsa fondativa della vita, il suolo è dati i tempi estremamente lunghi, geologici, per la sua formazione e rigenerazione, una risorsa non rinnovabile. Dalla sua conservazione, dalla preservazione della sua fertilità e della sua salute, già gravata da una crescente dilatazione della domanda alimentare globale che, per il solo effetto della crescita demografica – senza cioè considerare il verticale aumento del consumo medio pro capite – si è all’incirca ottuplicata nel corso degli ultimi due secoli, dipende quindi il futuro dell’umanità.
Risorsa naturale limitata, non rinnovabile e insostituibile, la «pelle viva del pianeta» con i suoi pochi centimetri di spessore è attraversata da gravi processi di degrado delle sue capacità produttive, del quale la desertificazione costituisce il punto finale. L’erosione dei suoli e la riduzione della loro fertilità non è però un fenomeno nuovo. Antico quanto il mondo, esso ha subito un’accelerazione con la nascita e la successiva diffusione dell’agricoltura e si è ulteriormente allargato ed accentuato a partire dal XV secolo con l’espansione coloniale europea, finendo con l’interessare l’intero pianeta. Nel corso del ‘900 poi, con lo sviluppo dell’agricoltura commerciale, l’adozione generalizzata delle lavorazioni meccaniche, l’affermazione diffusa di indirizzi produttivi a carattere intensivo e monocolturale ha reso allarmante il fenomeno. Secondo le indicazioni delle Nazioni Unite oltre il 25% delle terre coltivate del pianeta – e ben il 70% delle terre aride – è colpito dalla desertificazione. Ogni anno circa 10-12 milioni di ettari di terra vengono investiti da processi di degrado della loro fertilità. Il fenomeno è particolarmente grave in Africa, Asia, Sud America, Caraibi, ma interessa anche gli Stati Uniti, l’Australia e l’Europa e in particolare l’Europa mediterranea. Nell’Africa subsahariana a causa della crisi di fertilità del suolo, circa 265 milioni di persone sono colpite da carenze alimentari. La sola Nigeria, la nazione più popolosa del continente africano, con circa 170 milioni di abitanti, perde ogni anno, a causa della desertificazione, oltre 350 mila ettari di pascoli e di terreni agricoli coltivabili. Gran parte delle migrazioni che muovono da quelle regioni in direzione dell’Europa o di altre destinazioni sono prodotte dalla crisi di fertilità dei suoli coltivabili e dei pascoli.
Ma quali sono le cause di un fenomeno tra i più preoccupanti del nostro tempo, gravido di conseguenze catastrofiche e che per la sua portata ed i suoi effetti è anche all’origine del land grabbing, la corsa di Stati e multinazionali all’accaparramento, generalmente nei paesi poveri, di terreni fertili, che alla fine del primo decennio di questo secolo interessava, secondo le indicazioni della Banca Mondiale, una superficie di ben 56 milioni di ettari di terra coltivabile? È forse opportuno notare che il termine desertificazione non rimanda all’allargamento del perimetro del deserto, di una realtà ecologica esistente che si espande, inghiottendo aree contermini prima coltivate. Fenomeno, anche questo, reale e preoccupante, che si va manifestando un po’ ovunque, dal Sahara al deserto dei Gobi in Cina, generando altre imponenti processioni di rifugiati o migranti ambientali. Più miratamente, come recita la definizione adottata dalla Convenzione delle Nazioni Unite per la Lotta contro la Desertificazione – United Nations Convention to Combat Desertification (Unccd) –, firmata a Parigi il 14 ottobre del 1994, «il termine desertificazione designa il degrado delle terre nelle zone aride, semi-aride e sub-umide secche provocato da diversi fattori, tra i quali le variazioni climatiche e le attività antropiche».

In modi diversi, tutta l’Europa mediterranea è ormai percorsa da larghi e avanzati processi di degrado dei relativi suoli. Dalla Spagna centro-meridionale all’Italia, alla Grecia, tutti i territori europei che chiudono il Mediterraneo ne sono variamente interessati. Lo dimostra la diffusa riduzione della presenza di sostanza organica, il costituente più importante e l’indicatore chiave dello stato di salute dei suoli: tutti a livelli inferiori all’1%, chiara espressione di un progressivo stato di deterioramento della loro potenziale vitalità e attitudine a produrre. In Italia circa il 21% del territorio «è ritenuto a rischio desertificazione» e i dati disponibili per l’ultimo decennio del secolo scorso «evidenzia – secondo l’Ispra – una tendenza evolutiva verso condizioni di maggiore vulnerabilità ambientale». In Abruzzo, Campania e Calabria, e così anche nelle Marche, Emilia Romagna, Umbria e Sardegna, tra il 30 e il 50% dei suoli regionali è a rischio desertificazione. Ma tale livello di estensione dei processi di avanzata degradazione dei suoli sale al 55% in Basilicata, 57% in Puglia e 58% in Molise, per toccare il livello massimo in Sicilia, dove ben il 70% circa della superficie è contrassegnato da «un grado medio-alto di sensibilità alla desertificazione». Un nuovo elemento che si aggiunge ai tradizionali fattori esplicativi del divario Nord-Sud.