Il governo Draghi è stato invocato come dei “capaci e meritevoli” o dei “migliori”. Ma al di là dell’evidente copertura narrativa di una realtà perfino opposta a quella dichiarata, è utile rilevare come il richiamo alla “meritocrazia” non sia stato affatto secondario nel mood della recente svolta politica. Lo dimostra la decisione di chiedere una consulenza alla McKinsey sul Recovery plan. Roger Abravanel, autore del best seller Meritocrazia, che proponeva di disseminare l’Italia di test d’intelligenza per monitorare le performance dei soggetti al lavoro, a sua volta consulente di Maria Stella Gelmini quando era ministro dell’istruzione, considera le pratiche selettive della McKinsey un modello ideale.

Nel discorso di Draghi in parlamento è risuonato l’appello ad una sorta di darwinismo sociale, volto a promuovere un debito sano diretto a premiare soltanto le imprese competitive. Maria Elena Boschi, nella discussione sulla fiducia ha messo l’accento sulla necessità di tornare a valorizzare il rischio contro la regressione a politiche assistenzialistiche. E’ stato nominato fra i ministri – oltre alla stessa Gelmini – Renato Brunetta, che nella riforma del 2009 della pubblica amministrazione promuoveva criteri premianti meritocratici legati alla prestazione. Infine Draghi ha chiamato come stretto collaboratore Francesco Giavazzi, che ha sostenuto la necessità di non investire sui dipartimenti universitari in difficoltà, aumentando le risorse per la ricerca, bensì direzionarle sull’eccellenza e licenziare o sottopagare i docenti “incapaci”.

Tutto ciò non è casuale. Matteo Renzi ha raccolto la spinta degli ambienti confindustriali e mediatici a non mettere in discussione una politica economica tutta basata sulla stimolazione selettiva dell’offerta (aiuti alle imprese competitive) con un ritorno ad alimentare la domanda (investimenti pubblici, ammortizzatori sociali, redistribuzione). Ecco perciò la necessità di invocare un ritorno alla meritocrazia rispetto ad una politica sociale stigmatizzata come assistenzialistica (ristori a pioggia, reddito di cittadinanza etc..). La meritocrazia garantisce consenso perché rimanda ad una moralizzazione della vita pubblica basata su regole certe di assegnazione delle risorse contro favoritismi e corruzione, in un depistaggio cognitivo che fa rimuovere lo sfruttamento spesso perpetrato in forme del tutto legali, all’insegna del rispetto ordoliberale delle regole del gioco della concorrenza.

In realtà il termine meritocrazia è stato inventato da Michael Young negli anni cinquanta del Novecento, in un romanzo sociologico distopico in cui la società è divisa fra un’élite di meritevoli selezionata con un sistema di testing e una massa di lavoratori manuali, tendenzialmente felici di servire in quanto il potere è appunto determinato dal merito, sebbene questo sia poi in realtà legato repressivamente ai valori produttivistici che svalutano ad esempio i meriti dei lavori di cura.

Nel suo ultimo libro Thomas Piketty spiega bene come sia potuto succedere che il lemma abbia assunto una valenza positiva: si tratta infatti di giustificare la riapertura della forbice delle diseguaglianze, ma in un contesto giuridico in cui è tutelata l’uguaglianza dei diritti. La stessa analisi aveva fatto anche Papa Francesco, in un discorso all’Ilva di Genova nel 2017: la meritocrazia colpevolizza il povero come demeritevole e deresponsabilizza il ricco nei suoi confronti, con la conseguente “legittimazione etica della diseguaglianza” e la considerazione del talento non come un dono, ma come un motivo per primeggiare sugli altri.

Questa ideologia ha basato il suo appeal sull’idea che privilegiando meriti e talento, questi avrebbero poi portato l’intera società a migliorare il suo benessere: strategia fallita per le conseguenze della finanziarizzazione per cui l’aumento dei profitti non produce né occupazione né fiscalità da trasformare in servizi. Inoltre è ormai chiaro come il ceto medio americano sia stato letteralmente ucciso dai sistemi meritocratici basati sui test di accesso ai college, determinando di fatto una società di casta.

Quando si parla di meritocrazia difficilmente si indicano quali dispositivi attuare per creare pari opportunità di partenza, né si pensa al fatto che queste ultime rimandino ad una competizione che alla fine riproduce vincenti e perdenti, senza che si tuteli adeguatamente la sfera del bisogno. Quel che non va bene nella meritocrazia non è il riconoscimento del merito, bensì l’illegittima diseguaglianza di potere e diritti che da esso deriva.

In Italia, invece, la distopia meritocratica si è insediata di nuovo nelle istituzioni, in modo più o meno dichiarato, con il sogno di un nuovo macronismo esteso anche ai sovranisti addomesticati della Lega. E sembra che il Pd ne stia per finire travolto, proprio perché non ha saputo mai scegliere fra occuparsi del bisogno e di chi sembra meritare di non averne.