Per chi, com’è nel mio caso, si sia occupata sistematicamente dei ricorrenti “affaire del velo” francesi, anche i divieti del “burkini” e il relativo battage politico e mediatico appaiono come un caso d’isteria politica, per riprendere la formula proposta nel 2004 dall’antropologo Emmanuel Terray.

Com’è ben noto, la campagna contro il “velo islamico” sfociò nella controversa legge francese del 2004, che proibisce nella scuola pubblica i segni religiosi detti ostensibili: in realtà il solo hijâb. Oggi, invece e per fortuna, a contrastare l’isteria politica sono intervenuti il parere del Consiglio di Stato, la più alta giurisdizione amministrativa francese, che ha giudicato le ordinanze comunali vietanti il “burkini” come un attentato alle libertà fondamentali, grave e manifestamente illegale; e, subito dopo, il commento dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, per il quale la parità di genere non si consegue regolamentando dall’alto ciò che le donne devono indossare.

Come nel caso del “velo”, anche il “burkini” (inventato undici anni fa da una stilista e pensato non solo per le musulmane) è stato totalmente privato della sua polisemia e svincolato dalle donne in carne e ossa che ne fanno uso – di solito evocate sotto l’astratto “la donna musulmana” – quindi dalle loro motivazioni: variabili e molteplici. Così come mutevole, secondo gli individui, la storia, le culture, è il senso del pudore e della decenza.

Insomma, al pari del “velo”, il “burkini” è, in fondo, un oggetto feticistico costruito dal discorso egemonico, che vale a evocare una differenza, postulata come irriducibile, fra «noi» e «loro». La feticizzazione di questo o quel capo di vestiario e la stigmatizzazione di chi li indossa rimandano a un intreccio di questioni sintetizzabile in una: il rapporto fra maggioranza e minoranze, in particolare lo statuto delle persone di presunta fede musulmana.

Ciò ha a che fare, a sua volta, con un passato coloniale che non passa e con l’incremento di un razzismo segnatamente anti-arabo, soprattutto dopo la sequela di attentati di matrice islamista-terrorista.

Gli ultimi decenni hanno visto nell’Esagono un notevole peggioramento della condizione sociale della popolazione «d’origine africana», specialmente maghrebina. Si sono accentuate segregazione territoriale e gestione poliziesca di tipo coloniale dei “quartieri sensibili”. E la discriminazione, in particolare nel campo del lavoro, ha determinato una condizione sociale quasi-castale.

Infatti, la maggioranza degli/delle discendenti dell’immigrazione postcoloniale non ha alcuna speranza di mobilità sociale, condannata com’è a ereditare lo status dei genitori o dei nonni, se non a essere declassata.

L’eventualità d’inserimento lavorativo è assai vaga, se è vero che – come rilevano non pochi studi – un/a giovane che abbia un cognome che suona arabo o subsahariano ha assai meno possibilità d’essere convocato/a per un colloquio di lavoro, rispetto a un/a coetaneo/a franco-francese: a parità di livello d’istruzione e competenza (pdf qui).

È quasi pleonastico aggiungere che la discriminazione in base al genere fa sì che le donne «di origine africana», tanto più se presunte musulmane, siano doppiamente penalizzate. Perciò ancor più grottesche suonano le parole di coloro che affermano che la proibizione del “burkini” sarebbe volta a liberare le donne “islamiche” dalle catene del maschilismo e del patriarcato.

Non meraviglia affatto che lo sostengano Manuel Valls, Nicolas Sarkozy e Marine Le Pen, facendone cavallo di battaglia per l’imminente campagna elettorale. È invece singolare che a definire atto di libertà una così pesante violazione della libertà individuale siano talune post-femministe nostrane.

V’è, fra loro, chi divaga generalizzando sulla “donna musulmana” (sempre al singolare) prigioniera della sharî‘a anche nei paesi coinvolti nelle cosiddette primavere arabe. Ignorando, per dirne una, che fin dal lontano 1956 la Tunisia si dotò di un Codice dello statuto personale che stabiliva la parità fra i generi in ogni campo e istituiva il divorzio civile, mentre in Italia solo nel 1974 sarà introdotto definitivamente nell’ordinamento giuridico.

Per non dire della vivacità e combattività politica di tante donne tunisine odierne, della presenza di un articolato movimento femminista nonché di associazioni LGBT che si battono contro l’omofobia.

V’è anche chi si schiera in favore del divieto in quanto il “burkini” e l’hijâb sarebbero “scomodi”, guardandosi bene dal suggerire di vietare alle donne europee certe pericolose calzature dai vertiginosi tacchi a spillo, tornate di moda insieme con l’incalzante processo di mercificazione dei corpi femminili.

E qui conviene citare un “dettaglio” interessante della storia del femminismo italiano.

Nei tardi anni ‘70 le femministe che eravamo d’un tratto abbandonarono minigonne, jeans attillati e tacchi a spillo (per l’appunto) in favore di lunghe gonne a fiori, camicette ricamate e zoccoli di legno. Quel modo di abbigliarsi così femminile era, in fondo, una forma di rovesciamento dello stigma: la trasformazione del segno di un’appartenenza svalorizzata in emblema ostentato con orgoglio, secondo il classico modello alla black is beautiful.

Questa risemantizzazione di uno stile che nell’opinione comune evocava una femminilità sorpassata divenne la traccia esteriore del manifesto del movimento: la critica dell’emancipazionismo, il diritto di ridefinire la propria singolare appartenenza di genere, il rifiuto della reificazione del corpo femminile.

Non diversamente hanno fatto tante giovani tunisine partecipi dell’insurrezione popolare che ha rovesciato il regime benalista. Poiché sotto Ben Ali l’hijâb era proibito nei luoghi pubblici, scuola e università comprese, e le giovani che lo portavano erano spesso convocate in caserma e minacciate pesantemente, non poche, caduto il regime, hanno preso a indossarlo, delle volte insieme alla minigonna.

Per comprendere quanta violenza si celi dietro il divieto del “burkini” basta osservare la sequenza fotografica che documenta il blitz compiuto da una squadra di poliziotti, armati di manganelli e spray al peperoncino, su una spiaggia di Nizza il 23 agosto scorso: ai danni di una donna non già in “burkini”, ma vestita “in eccesso” (il capo coperto da un foulard, il corpo da una tunica) perciò umiliata e costretta a spogliarsi sotto gli occhi e gli insulti di bagnanti rispettosi della legge, quindi quasi nudi/e.

In realtà, svelamento e denudamento sono stati usati spesso per umiliare, annichilire, de-umanizzare l’altro, soprattutto l’altra. Si pensi all’ossessione coloniale di svelare le musulmane. È Frantz Fanon, fra gli altri, a ricordare la cerimonia che si svolse ad Algeri il 13 maggio del 1958, quando, nella Piazza del Governo, delle donne furono indotte o costrette a montare su un palco per bruciare i loro veli.

Il potere coloniale intendeva mostrare così che la sua “missione civilizzatrice” era rivolta anche a emancipare le indigene. Sebbene siano passati quasi sessant’anni, perdura la tentazione di civilizzare le nuove indigene.