Nel 1869, il fotografo amatoriale William Mumler venne arrestato e processato a New York, con l’accusa di frode. Con il suo obiettivo aveva intrappolato spiriti e fantasmi vaganti: quegli scatti erano finiti sul mercato, rendendo felici diverse persone che avevano così creduto di rintracciare i loro defunti nelle presenze spettrali. La guerra civile americana aveva mietuto molte vittime e il fotografo non fece altro che cavalcare a modo suo l’onda del dolore nazionale. Mumler si difese davanti ai giudici raccontando che un giorno, mentre era in camera oscura per sviluppare il suo autoritratto, si materializzò sulla pellicola la figura di suo cugino morto dodici anni prima. Da allora, sostenne, le apparizioni avevano popolato ogni immagine.
Frutto di un processo meccanico di soprapposizione, le sue fotografie non erano altro che il risultato di una perizia tecnica, ma in tribunale divennero delle imputate a causa dell’illusione che provocavano. Alla fine, non potendo i giudici attestare la veridicità né l’artificio, prosciolsero l’autore, che l’esposizione mediatica portò ugualmente alla rovina. Fra i suoi più accaniti detrattori, c’era anche l’imprenditore del circo Barnum.

L’esito sorprendente del caso Mumler inquadra alla perfezione le due polarità concettuali in cui si dispiega la mostra torinese Sulla scena del crimine, visitabile presso Camera fino al primo maggio (una coproduzione francese, inglese e olandese, ideata da Diane Dufour, con Luce Lebart, Christian Delage ed Eyal Weizman). Undici casi studio – dalla Sacra Sindone alla costruzione accusatoria della visione durante il processo di Norimberga fino ai droni in Iraq e alla identificazione di Mengele in Brasile – cercano di analizzare la fotografia nella sua scientificità, ma si scontrano con lo statuto stesso del mezzo: una natura che non permette nessuna assertività, contempla l’errore e decreta la non infallibilità, sia quando l’immagine è documento agli atti che biografia riassemblata a posteriori. Nonostante questa sospensione rischiosa e il tentennamento continuo tra realtà e finzione (la messa in posa del crimine, la sceneggiatura riscritta dei fatti basandosi sulla volatilità della memoria), l’immagine fotografica ha assunto fin dalla seconda metà dell’Ottocento, poco dopo la sua nascita, un valore giuridico di testimonianza. Come «segno» è la possibilità, in nuce, di fabbricazione della prova. In quanto shock, scriveva Barthes nel saggio La camera chiara, è tenuta a svelare ciò che prima dello scatto era ben nascosto, «ciò che l’attore stesso ignorava o di cui non era consapevole».

Segnaletica, indiziaria, set di un delitto ripreso dall’alto, con un cavalletto alto due metri affinché la vittima fosse frontale e visibile in ogni sua parte, impronta in negativo, la fotografia mantiene intatta la sua ambiguità originaria: è come se la polizia scientifica dovesse confrontarsi sempre con quel Giardino d’Inverno (la foto sbiadita della madre da piccola) di cui parlava Barthes, la registrazione vivente di un tempo che «è stato», con tutte le imposture che può determinare questo slittamento cronologico. Lì lo studioso coglieva un’essenza nell’assenza, nei tribunali si scruta fra le pieghe della verità, stringendo fra le mani solo una identità.

Per Alphonse Bertillon, il criminologo francese che inventò l’antropometria giudiziaria basandola su quattordici misurazioni più le impronte digitali, la scena del delitto divenne un laboratorio scientifico. La riproduzione di un omicidio, con il cadavere della vittima congelato così come era stato rinvenuto, o anche ricomposto per una migliore elaborazione dei dati, rimase comunque soggetta alla sua altalena costitutiva fra mimesi e illusione. La fotografia, come qualsiasi linguaggio, non può discostarsi dalla costruzione sintattica che ne determina il corpo fisico ed è fedele alle sue convenzioni più che alla veridicità.
Lo stesso Rodolphe Archibald Reiss, chimico di formazione e pioniere della fotografia forense, dovette affrontare lo scacco perenne fra obiettività dei fatti e deragliamento verso il facsimile. Allievo di Bertillon e poi docente a Losanna, riponeva una fiducia illimitata nella registrazione fotografica che sottoponeva a regole rigidissime e a una serie di classificazioni a scatola cinese. Dopo aver rappresentato la visione generale, concentrava i suoi sforzi sui dettagli, con micidiali «blow up». Li rilevava quasi morbosamente, inseguendo con meticolosità e utilizzando immagini di grande formato una tassonomia della scena dove era avvenuto l’assassinio. Reiss aveva un fiuto eccezionale per orientarsi dentro al teatro del crimine e perfezionò magistralmente l’approccio scientifico della polizia (era a capo del servizio fotografico della prefettura nel 1882). Eppure, né l’apparente neutralità della ripresa per l’identificazione del soggetto né la sua stretta codificazione assicurarono mai l’infallibilità di quella presunta duplicazione della realtà.