Da quando M, il film di Fritz Lang del 1931 sul mostro di Düsseldorf (serial killer che violentava e ammazzava bambine), ci ha mostrato che il male si cela in qualsiasi individuo, anche in quello più vicino a noi, sembra non ci siano più sorprese nei delitti, anche quelli più efferati. Invece non è così. Si resta sempre di stucco davanti a violenze che, come si suol dire, gridano vendetta al cospetto di Dio.

È CIÒ CHE EMERGE dalla lettura del libro-inchiesta di Antonio Pagliaro, Storia terribile delle bambine di Marsala – Il delitto che sconvolse l’Italia intera (Edizioni Zolfo, pp. 352, euro 18). Il 21 ottobre del 1971 scomparvero a Marsala, in Sicilia, le sorelline Ninfa e Virginia Marchese (5 e 7 anni) e la loro amica Antonella Valenti (9 anni). I cadaveri delle tre bambine, dopo una morte atroce fatta di stenti e di asfissia, dopo una tentata violenza sessuale, vennero ritrovati dopo giorni di angoscia, perlustrazioni e partecipazione emotiva di tutto il Paese. Del terribile delitto fu accusato Michele Vinci, zio di Antonella, che verrà riconosciuto come unico colpevole e condannato.

IL DELITTO e le fasi del processo vennero analizzati e commentati da scrittori quali Leonardo Sciascia e Vincenzo Consolo, mentre tra gli inquirenti e i poliziotti che svolsero le indagini troviamo i nomi di Cesare Terranova, Giangiacomo Ciaccio Montalto, Lenin Mancuso, tutti in seguito uccisi in agguati mafiosi.

Ed è proprio l’intreccio tra un delitto insieme atroce e «banale», una comunità locale che fa fatica a riconoscere i «mostri» che sta allevando dentro di sé e la società italiana che sta producendo altri orrori dentro il suo «progresso malato», il tema di fondo del libro.

NON C’È SOLO, in queste pagine, la ricerca negli abissi del cuore umano di dostoevskijana memoria, ma la storia di un Paese che ha appena conosciuto il boom economico e non vuole essere distolto dai miti e dai riti del progresso: un Paese che partecipa sì al dolore ma sempre con l’intonazione di cercare subito un capro espiatorio allontanando da sé qualsiasi analisi più responsabile.

Per non parlare delle «classi dirigenti» che oltre a non riconoscere neppure l’esistenza della mafia in quegli anni, brillano per retorica insopportabile (si veda il linguaggio burocratico dei tribunali stridente con un delitto così atroce). Un’inchiesta ricca di documenti che è uno spaccato dell’Italia che fu, ma che risulta utile anche per «leggere» l’Italia di oggi.