Cosa grida la folla alle fuorilegge? Non grida «assassina», «ladra» o «terrorista» ma «puttana», «fatti stuprare», «dalla all’uomo nero». Lo abbiamo visto sulle banchine del porto di Lampedusa. Si tratta di un’ignominia antica che sopravvive e riemerge in tutte le epoche. L’idea di «Le fuorilegge» è di tentarne una piccola archeologia attraverso alcuni ritratti cinematografici, prendendo casi diversi come la parricida Violette Noizière, la rivoluzionaria Angela Davis, le domestiche Papin, la folle Ida Dalser, la comunarda Louise Michel… Si tratta da un lato di vedere come e in che misura l’essere non sottomesse all’autorità maschile è il capo d’accusa di fondo di tutti questi casi celebri. E quindi di come le fuorilegge sono in ultima analisi fuori norma. E da un altro lato di vedere come intorno a questo crimine si crea rapidamente un delirio di desideri contrapposti, dai quali emergono dei ritratti che si accumulano come maschere sui personaggi effettivamente esistiti; e come il cinema, pur reinventandole, usa queste donne come vettori per accedere ad uno stato del mondo.

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Ancora una volta Chabrol. Ancora una volta gli anni trenta. Ma questa volta la vittima non è il padre ma solo un padrone. Anzi, due padrone. Il crimine avviene a Le Mans, la città delle automobili e delle assicurazioni. È il febbraio del 1933, si festeggia il decimo anniversario della celebre corsa: le 24 ore. La festa è rovinata da uno scandalo che coinvolge un’importante compagnia d’assicurazioni, la Mutuelle. Il direttore è accusato di aver frodato i propri clienti. Si chiama René Lancelin e abita in una bella dimora al numero 6 della rue Bruyère, nel cuore di uno dei più bei quartieri della città, accanto all’elegante parco Tessé.

È sposato con una donna di 56 anni, Léonie e insieme hanno una figlia, Géneviève. Da sette anni i Langevin hanno a servizio da loro due domestiche, le sorelle Christine e Léa Papin. I rapporti sono piuttosto buoni. La signora interviene spesso in favore delle sorelle che nella loro intimità la chiamano «maman».

UN GIORNO, cinque anni prima del delitto, Léa fa cadere un pezzo di carta su un tappeto. La padrona infuriata la costringe la serva sbadata a raccoglierlo, stringendole la spalla con forza. La punizione, violenta e inaspettata, lascia una traccia fisica, e più ancora morale. Torniamo dunque al pomeriggio del delitto. La sera del 2 febbraio 1933, i padroni non sono in casa. René Lancelin è a lavoro, le signore passeggiano. Lea rifà le stanze mentre Christine stira. Il ferro si rompe e provoca un corto circuito. Quando, verso le 19, le padrone tornano a casa, l’incidente provoca un diverbio che si trasforma improvvisamente in una rissa. Léonie e Généviève vengono picchiate con ferocia, ma è solo l’inizio.

Alle donne vengono prima strappati gli occhi. In seguito, con l’aiuto di un martello e di un coltello, sono stordite e scannate. L’azione è compiuta seguendo alla lettera le raccomandazioni per la preparazione dei conigli presenti nei manuali di cucina dell’inizio del novecento. Come se Christine, che era addetta alla cucina, avesse voluto iscrivere nell’omicidio il segno della propria abilità. Una volta finito, le sorelle ripuliscono tutto e vanno a coricarsi, chiudendosi a chiave nella loro stanza.

È FORSE questa metodicità che ha suggerito a Chabrol il titolo originale del film, La Céremonie (distribuito in Italia con il titolo Il buio nella mente), nel quale il regista francese adatta il romanzo di Ruth Rendel, A Judgement in the Stone. Non è né la prima né la sola opera che si ispira al caso Papin. Come per Violette Nozière, le sorelle riempiono i giornali, e l’opinione pubblica si divide tra chi ne chiede la testa e chi ne fa le vittime di una situazione sociale insostenibile. La letteratura sul caso è vastissima. All’indomani del processo, un giovanissimo Jacques Lacan scrive un saggio in cui conclude che si tratta di un caso di psicosi paranoica. Le violenze subite in famiglia dalle due sorelle quando erano piccole, e la loro probabile relazione incestuosa, stimolano le interpretazioni psicoanalitiche.

Artisti e intellettuali come Sartres (nel Muro), Simone de Beauvoir (ne La Force de l’âge) e ancora i surrealisti (Eluard, Péret, Man Ray), già scatenati sul caso Nozière, vedono, al di là del caso clinico, il valore simbolico del gesto criminale, come paradigma d’un crimine di classe.
È soprattutto su questo aspetto che Chabrol costruisce il proprio film, permettendosi alcuni, molti, scarti rispetto alla storia d’origine. Il primo dei quali è quello di trasferirne l’azione nella Francia contemporanea al film (che è del 1995). Il secondo, non da poco, è quello di rompere con uno dei punti cruciali della storia, ovvero la fratellanza di sangue delle due criminali, che ne Il buio nella mente diventa una pura fratellanza di classe.

SOPHIE BONHOMME (Sandrine Bonnaire) è una ragazza che viene assunta a servizio dai Lelièvre (alla lettera «i conigli», riferimento ironico e macabro all’omicidio sopra descritto) una famiglia benestante di Saint-Malò. Sophie incontra Jeanne (Isabelle Huppert), postina del paese, e presto diventano inseparabili. Fredda e riservata, Sophie ha un segreto che cerca in ogni modo di dissimulare ai suoi nuovi padroni: è analfabeta. Abbiamo visto che Léa Papin era stata umiliata da Léonie per la sua maldestria. In Chabrol l’incidente della carta caduta sul tappeto diventa l’incidente della carta scritta (un messaggio che la padrona lascia alla domestica).

Sembra che Chabrol si prenda una libertà troppo grande con la realtà e che, mettendo il segno uguale tra un’umiliazione volontaria e una involontaria (la signora Lelièvre ignora che Sophie è analfabeta) tradisca l’essenza stessa del caso. In realtà, è proprio questa equivalenza che vale la giustezza del ritratto chabroliano. Che non è quello di due domestiche trattate male. Ma quello di un confronto tra due classi che, al di là della buona o della cattiva volontà di questo o quello, sono opposte per la natura stessa del rapporto sociale che le definisce.

Sophie è umiliata quotidianamente dai suoi padroni per una colpa (l’essere analfabeta) che non è imputabile né a lei né a loro personalmente ma che è intrinseca alla condizione stessa delle loro vite rispettive. La violenza di classe si esprime allora in uno stato di cose più grande degli individui e quindi anche della loro coscienza. Anzi, il fatto stesso di pensare che questa violenza possa essere ridotta o annullata dal comportamento è un’illusione. È questo il senso del personaggio di Melida (la figlia dei padroni), che nel suo continuo tormentarsi per il trattamento riservato a Sophie esprime una buona coscienza che è la più pura espressione dell’ideologia borghese, la quale, nel momento stesso in cui pone che l’individuo può sempre decidere – per esempio di comportarsi degnamente con i propri servitori – nega la realtà stessa del rapporto servo-padrone.

La radicalità di Chabrol sta quindi nel rappresentare la lotta di classe non come un posizionamento ma come una posizione, la quale trascende gli individui e la loro coscienza. Questo vale per i padroni come per i servi – con la sola differenza che questi non si fanno illusioni sullo stato delle cose. In questo Chabrol sembra hegelo-marxiano. Soprattutto, è hitchcockiano. Nella Céremonie la lotta di classe prende la forma di un confronto per il dominio dello spazio: come questo si distribuisce, si occupa, si vive. All’inizio del film, George (il padrone) dice a proposito di Sophie : «Bisognerà insegnarle a servire». Parla del servizio a tavola, ma più in generale del servizio tout court.

Ovvero del posto che Sophie deve occupare nella casa. Lo dice con bonomia, ma l’osservazione appare allora ancora più cinica. Ufficialmente, in Francia, nel 1995 la lotta di classe non ha motivo d’essere perché tutti sono uguali. Ecco che Catherine si sforza di rendere il primo incontro con Sophie informale, con il solo risultato di rendere ancora più evidente e imbarazzante il fatto che, in realtà, ognuno è tenuto a stare al proprio posto: servi da un lato, padroni dall’altro.

ALL’INIZIO di Operai e capitale, Mario Tronti afferma che, se la fabbrica è il terreno dello scontro di classe, allora non bisogna appropriarsene ma darle fuoco. Ecco che la rivolta di Sophie e Jeanne sarà per prima cosa contro la casa. La «cerimonia» del massacro comincia con l’invasione e la profanazione degli spazi nei quali i servi non sono ammessi, o sono mal tollerati. E il culmine del processo si ha quando le due assassine, armate di fucile, salgono sulla scala della biblioteca, pronte a prendere a fucilate «i conigli» che, ignari di quello che li aspetta, guardano il Don Giovanni alla televisione.

5.continua