Un tetro maniero della campagna inglese, Blackheath House, circondato da foreste impenetrabili dove sorge, nascosto tra la vegetazione selvaggia, un antico e misterioso cimitero. È questo l’inquietante scenario nel quale una famiglia dell’aristocrazia, avviata verso un lento ma inesorabile declino, riunisce un pugno di bizzarri personaggi destinati a trasformarsi in altrettanti testimoni della morte violenta di Evelyn, la giovane erede della casata locale, gli Hardcastle. Uno degli ospiti, Aiden Bishop, nel tentativo di smascherare l’assassino dovrà fare i conti con un «circolo temporale» che lo riporta sempre al punto da cui è partito e con figure che cambiano di continuo aspetto e identità.
Intorno all’impianto classico del mistery in stile Agatha Christie, da lui evocata come un costante punto di riferimento narrativo, il 39enne autore britannico Stuart Turton ha costruito Le sette morti di Evelyn Hardcastle (Neri Pozza, pp. 526, euro 18) un romanzo, bestseller in molti Paesi europei, dove si intrecciano anche il gotico e il soprannaturale, i viaggi nel tempo, la fantascienza letta attraverso i rimandi cinematografici, le serie tv e i videogiochi. In una parola: «il fantastico» riletto con gli strumenti della cultura popolare di oggi. Il tutto accompagnato da una sottile ma percepibile critica sociale.

Partiamo dall’inizio: perché un ragazzo figlio di operai, appartenente alla working class del Nord dell’Inghilterra vuole riproporre lo stile di Agatha Chrstie che sembrava descrivere un mondo borghese quando non aristocratico?
Quei romanzi hanno rappresentato il mio primo contatto con i libri quando avevo intorno ai dieci anni. E li adoravo proprio perché descrivevano una realtà talmente lontana dalla mia che credevo di leggere di draghi e magie, quasi delle storie fantasy ai miei occhi. Vite trascorse nel lusso più sfrenato, persone che non dovevano lavorare per mantenersi: una realtà che mi appariva incredibile e fantastica. Però nella mia decisione di scrivere questo romanzo ha pesato anche un altro elemento. Vale a dire proprio il fatto che al di là della trama, il voler coinvolgere il lettore nella scoperta di un colpevole per risolvere un crimine, mi interessava introdurre un elemento di critica sociale in un’opera che apparentemente celebrava un certo mondo aristocratico e un sistema di classe fermo e chiuso in se stesso. Un tema che in questo momento mi sta particolarmente a cuore visto che il mio Paese sta attraversando un momento storico molto delicato, a causa della Brexit, nel quale sta emergendo una sorta di nostalgia per un passato che in realtà non aveva nulla di epico o glorioso. Un passato, solo per dirne una, nel quale io come figlio di operai non avrei mai potuto scrivere un romanzo e cercare di vivere di questo, visto che all’epoca era solo le famiglie delle classi agiate potevano permettersi tutto questo.

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Ma sul piano stilistico cosa significa scrivere oggi un libro che si ispira allo stesso tempo a Agatha Christie e al romanzo gotico apparso nel Settecento e poi riemerso in epoca vittoriana, generi che appaiono legati a epoche storiche piuttosto definite?
In realtà ho seguito dapprima la struttura narrativa e l’intreccio dei romanzi di Christie per poi misurarmi con una seconda presenza, quella della «casa», il luogo dove si celebra e prende forma il mistero. Mi sono avvicinato così allo stile del romanzo gotico poi ripreso da figure come Lovecraft o Poe, ma per certi versi riconoscibile anche nel lavoro di Stephen King. Volevo che non si trattasse solo di una presenza inquietante, ma che questo luogo potesse assumere il profilo di un vero e proprio personaggio, anzi del protagonista del libro, in grado di determinare ciò che accade e il perché tutto avviene in modo così terribile. Per prepararmi ho anche vissuto per una settimana da solo in un vecchio maniero della Normandia che ho esplorato un po’ alla volta con l’aiuto di una torcia o di qualche candela per immedesimarmi in ciò che sarebbe accaduto in seguito ai miei personaggi.

Tra i suoi riferimenti letterari, accanto alla già citata Christie, ci sono il creatore di Sherlock Holmes, Arthur Conan Doyle, e quello di Dracula, Bram Stoker, ma, a sorpresa, anche Franz Kafka. Nel suo romanzo c’è qualcosa che può rimandare all’autore de «La metamorfosi»?
L’incubo nel quale precipita il protagonista all’inizio del libro penso si possa descrivere come «kafkiano» senza essere accusati di appropriarsi ingiustamente di tale riferimento: non riesce a comprendere né cosa gli sta accadendo, né il motivo perché tutto questo capiti proprio a lui. Ma voglio credere che si possa scorgere anche un altro punto di contatto, indiretto o se si preferisce «letto al contrario». Mi spiego. Nel mondo di Kafka i personaggi compiono spesso delle azioni che appaiono come prive di senso agli occhi di coloro che li circondano. All’inverso, nel mio romanzo, tutti sanno cosa sta accadendo tranne il protagonista che lentamente e con molta fatica imparerà a scoprire quali siano le regole del gioco e in che direzione proceda la sua stessa vicenda.

Il romanzo sembra costruito su una sorta di «sovversione» del tempo narrativo che anziché lineare, scandito da un «prima» e un «dopo», vede scorrere in parallelo tutte le diverse fasi e momenti della storia.
Credo si possa dire che al centro del libro vi siano il desiderio di redenzione e il senso di colpa, elementi legati al rimpianto che i personaggi esprimono e che ho cercato di assecondare proprio agendo sulla loro capacità di muoversi liberamente nel tempo. Così avrebbero avuto la possibilità, se lo volevano, di modificare il corso degli eventi. Per ovviare agli errori del passato possono infatti farvi ritorno e prendere decisioni diverse in base alle conseguenze che tali scelte hanno prodotto. Il tempo è perciò il campo di battaglia delle loro emozioni: lo percorrono in diverse direzioni senza rinunciare per altro a vivere il presente. Perciò, più che al cospetto del classico «viaggio nel tempo» della fantascienza, in questo caso ci troviamo in un territorio narrativo dove coabitano tempi e esperienze diverse, talvolta parallele in altri casi alternative.

Da sempre il «fantastico», come anche i rimandi al gotico, al noir o al poliziesco classico non coincidono solo con i canoni letterari ma ispirano, prima soprattutto film e negli ultimi anni serie tv, spesso di grande qualità, e anche videogiochi. Nel suo romanzo si scorge un’evidente eco di tutto ciò.
In effetti non sono cresciuto solo con i libri di Christie, ma anche con i videogiochi e le serie tv. Ne amavo una in particolare, In viaggio nel tempo (Quantum Leap) – prodotta a partire dal 1989 dalla Nbc, ndr. Del resto, l’idea che i personaggi possano assumere l’identità e le sembianze di qualcun altro mi è venuta proprio dai videogiochi. Mentre è da un film, Ricomincio da capo (Groundhog Day), nel quale il personaggio interpretato da Bill Murray resta intrappolato in un circolo temporale risvegliandosi ogni mattina alle 6 dello stesso «giorno della marmotta», che mi sono ispirato per ciò che accade al protagonista del mio libro.

Lei faceva prima un accenno alla Brexit e c’è una frase all’inizio del romanzo che sembra sintetizzare bene i sentimenti che hanno attraversato la società britannica sia in occasione del referendum del 2016 che nelle recenti elezioni politiche: «Quanto bisogna sentirsi sperduti per lasciare che sia il diavolo a condurci a casa?».
Non ci avevo pensato, ma effettivamente sono parole che possono illustrare bene come sono andate le cose nel mio Paese. Ho votato per il «remain» e sono sempre stato contrario all’idea di separarsi dal resto d’Europa, ma non per questo non mi rendo conto che molti che hanno fatto la scelta opposta hanno preso questa decisione in buona fede, per paura e fragilità. Nelle zone del Nord dell’Inghilterra dove sono cresciuto in molti si sono fatti abbindolare dalle frottole sul «ritornare padroni della propria casa» se si fosse rotto il legame con la Ue. Persone che si sono convinte che così la loro vita sarebbe migliorata, avrebbero guadagnato di più e si sarebbero sentiti più sicuri. Perciò sì, credo che in molti si siano fatti tentare dalle promesse illusorie del «diavolo» perché si sentivano, e si sentono ancora, incerti e vulnerabili.