Potremmo cominciare dalla potenza strategico-militare, gli Stati uniti, caduta nelle mani di un costruttore di campi da golf, votato da coloro che non hanno mai tenuto in mano una mazza da golf. Costui sta smantellando, pezzo per pezzo, le infrastrutture legali-amministrative del paese, delegittimando gli “esperti”, a cominciare da quelli legati ad un rapporto prioritario con i grandi paesi europei.

Persino i think tank conservatori appaiono superflui. Resistono i potenti della finanza favorevoli alla dismissione dell’apparato politico federale.

E l’Unione europea? Il mito di aver superato l’epoca degli stati-nazione con le loro guerre, con i particolarismi culturali, religiosi, si è dissolto con l’ingresso dei paesi dell’est-Europa, dell’ex Jugoslavia, antropologicamente inchiodati nel nazionalismo del primo Novecento, alla mercé dei successori di Pilsudski, di Ante Pavelic, del maresciallo Horthy, e di chi altro? Da un lato l’egemonia delle élite germano-scandinave e dall’altro lato il revanscismo dei polacchi, degli ungheresi formano un mix che sta erodendo l’integrazione europea.

La prova più recente è la partecipazione alla cerimonia per Gerusalemme capitale di Israele da parte proprio di quei paesi centro-orientali i cui governi e popoli collaborarono con lo sterminio nazista dei loro concittadini ebrei. Più in generale l’approccio dell’Europa intera nei confronti di Israele è paradossale. Il complesso di colpa verso il destino dei propri concittadini ebrei è alla base dell’approvazione di qualsiasi cosa facciano oggi gli israeliani contro “i loro ebrei”, i palestinesi con le fionde. L’approvazione deriva dall’essere stati gli europei a mettere i propri concittadini ebrei in condizione di scappare in Palestina, e poi di avergli “regalato” uno stato nazione.

E se gli eredi della gens cui appartengono Spinoza e Benyamin, Malher e l’inventore della penicillina, Einstein e Woody Allen, si comportano con i palestinesi come qualsiasi stato nazione dell’Ottocento coloniale europeo con le popolazioni indigene, l’Unione europea rimane zitta. E’ disponibile a stigmatizzare comportamenti ‘coloniali’ di despoti africani, asiatici, latino-americani ma non quello israeliano. Rosa Luksenburg e Hanna Arendt si stanno rivoltando nella tomba: Israele è un problema che sta all’Europa affrontare perché è l’Europa che l’ha prodotto.

E non è il solo problema: sparito sembra il ruolo millenario dell’Europa nello sperimentare forme della politica, dell’economia, nel salire grandi vette nell’arte.

La fine del suo ruolo sulla scena globale porta alla ribalta conflitti appartenenti a epoche che ormai si studiano sui libri di storia alle elementari. Le guerre tra clan tribali, tra fazioni nate all’interno di una stessa religione, l’ostilità contro il nemico, l’estraneo, il diverso hanno le forme e la sostanza di un passato antico, riemerso con violenze extra legem. La sola novità è che i mass media dell’information technology ne danno conto in tempo reale permettendo di misurare quanto il tempo presente sia ormai dentro uno scenario che l’Europa ha vissuto prima della pace di Westfalia, nel 1648.

I principi sono oggi le élite finanziarie transnazionali ma simile è la distanza tra chi sta sopra e chi sta sotto mentre è dissimile l’indifferenza del potere contemporaneo verso il controllo dello stato delle cose. Sono in corso vere e proprio guerre tra sciiti e sunniti, persiani e ottomani, siriani e curdi. A Bagdad e in Arabia Saudita i giochi li hanno in mano due giovanotti con ambizioni pre-1648, lo sciita Moktada al Sadr e il sunnita principe ereditario: vogliono ambedue liberarsi di chi faceva i giochi prima, dell’Europa e dell’America, e vederserla tra di loro all’ombra del Corano.

La medesima voglia di autonomia hanno altri territori e popoli, per secoli clienti obbedienti delle potenze europee di cui avevano paura. La paura è stata spazzata via come effetto del dominio di élite finanziarie transnazionali, che non hanno bisogno di governare popoli e territori con la forza, bastano gli algoritmi. E di conseguenza sono in relazione con chi li usa anche nei luoghi dove la guerra sembra protagonista, tra case sventrate e piazze in fiamme. Nelle banche e nei grandi studi legali, le reggie e le cattedrali del potere contemporaneo, chi opera lo fa a prescindere dalla piazza, e paga truppe mercenarie affinchè non vi arrivi l’eco dei conflitti. Difatti la politica di potenza delle élite finanziarie ha costi di gestione perché sia assicurata la distanza necessaria tra la piazza con masse in subbuglio e le tranquille sedi degli accordi transnazionali.

I protagonisti di quegli accordi ritengono di essere al di sopra e al di là delle guerre tra fazioni religiose, tra riposizionamenti tra stati-nazione, persino dalle scaramucce tra potenze nucleari. Le élite vivono in due piani distinti, nell’uno vi è il proprio universo con un potere quasi anonimo e nell’altro piano vi è un universo di conflitti antropologicamente estranei a quel potere. La sola connessione riguarda il mercato delle armi e dei mercenari ma è indiretta, è un business come altri. Gli affari del settore si traducono anch’essi in flussi finanziari che appositi algoritmi fanno girare per il mondo.

In questo tempo presente prevale il disinteresse per le sorti degli uomini del lavoro manuale, degli uomini che arrivano con i barconi, dei palestinesi e dei curdi, e di chiunque si trovi tra gli ultimi della terra, lasciati da soli alla propria sorte come raramente è accaduto nella storia della grande Europa.