La proposta di Maurizio Landini di un progetto condiviso da governo, sindacati e imprese, perché il paese non “si sbricioli sotto i colpi della deindustrializzazione”, scaturisce dai problemi economici e sociali.

Riassumibili nella persistente disoccupazione correlata alla caduta degli investimenti, in particolare in ricerca e in innovazione, e nel declino di lungo periodo della produttività. Tuttavia, essa è traguardata sulla portata delle straordinarie trasformazioni che stanno avvenendo nel mondo: innovazione incontrollata, indebolimento degli investimenti e del commercio mondiale, enorme espansione del debito privato, disconnessione tra i rialzi di mercati azionari sempre molto turbolenti e le prospettive dell’economia reale, divergenza tra tassi di interesse tra le maggiori economie, accumulo di bolle.

Per questo il baricentro della proposta del segretario generale della Cgil è la connessione tra questioni del lavoro e della sua qualità, nuovo modello di sviluppo ecologicamente sostenibile, democrazia economica. D’altronde, in questi mesi in tale materia vi sono state sortite abbastanza sorprendenti: dal manifesto dell’America’s Business Roundtable (associazione dei Ceo delle più grandi e potenti corporations americane) proclamante l’abbandono della teoria della shareholders value (il primato della massimizzazione del valore per l’azionista, cardine del neoliberismo), all’annunzio del Financial Times che per il capitalismo è ormai il Time for a reset.

Si può e si deve nutrire scetticismo sulla (tardiva) acquisizione di consapevolezza da parte di simili attori, come fanno Joe Stiglitz e Katharina Pistor. Ma è indubbio che oggi un rinnovato interesse per il capitalismo è veicolato dal tema del futuro della democrazia. Anche perché la resilienza del neoliberismo, oltre ad essere dannosa in sé, è troppo dovuta alla sua combinazione spuria con populismi sovranisti di diversa natura.

Proprio quando le istanze democratiche sono sotto stress, esigenze democratiche si pongono con più forza in ambiti estesi. Così il ragionamento si allarga alla democrazia economica, alla partecipazione dei lavoratori alle decisioni di impresa, ai vari tipi di impresa che possono essere immaginati. Mentre dilagano il lavoro atipico e la precarietà, non è male che anche tra le forze imprenditoriali cresca la consapevolezza che le dinamiche di finanziarizzazione hanno trasformato il ruolo del manager da attore contemperante i vari interessi in gioco, in agente del capitale finanziario. I cattivi risultati della nefasta affermazione del primato della governance sul government ci inducono a interrogarci radicalmente su istituzioni, sfera pubblica, statualità.

In questione è anche la codificazione che la legge compie del capitale e del diritto di proprietà. La economia neoclassica main stream ignora il potere della codificazione legale. Ma se il capitale è la proprietà legale a cui è assegnato un valore monetario nell’aspettativa di futuri rendimenti monetari, Katharina Pistor ci ricorda che, mentre anticamente la terra poteva generare rendimenti anche in assenza di codificazione legale, oggi gli strumenti finanziari e i diritti di proprietà intellettuale esistono solo nella legge. La codificazione che la legge fa del capitale (mediante contratti, diritti di proprietà, collaterale, trust, legislazione sui fallimenti e sulla bancarotta, ecc.) trasforma ogni asset in capitale, con cui la volontà dello Stato (che ha smantellato i preesistenti privilegi feudali) conferisce nuovi privilegi legali, i quali si risolvono in altrettanti decisivi attributi del capitale quali “priorità”, “durabilità”, convertibilità”. .

Nella stessa proprietà privata è rintracciabile una evoluzione che, rispetto alla nozione classica di assoluta non interferenza su una piccola sfera di libertà di scelta, la configura come boundle of rights che include anche responsabilità, doveri fiduciari multipli, diversi gradi di partecipazione, diritto di accesso al surplus sociale e così via. Inoltre, la contestazione della tesi di una ineluttabile “convergenza” verso un unico modello neoliberistico di capitalismo e l’apprezzamento della tesi di una pluralità di “tipi di capitalismo” (alcuni “buoni”, altri “cattivi”, come direbbe Baumol) possono associarsi a un ritorno di indagine connesso all’osservazione delle nuove tecnologie, a come esse influiscano sui diritti di proprietà e sull’estrazione predatoria di nuove rendite.

Le nuove tecnologie racchiudono anche forti istanze cooperative, nella direzione della creazione di sistemi produttivi in grado di autoprogettarsi e autoregolarsi, che, anziché lasciate al solo capitalismo, possono essere utilizzati da lavoratori intenzionati alla “coprogettazione” in disegni alternativi. Ma qui ciò che balza in evidenza è la profondità della trasformazione a cui aspirare e, di conseguenza, la possibilità di una direzione dell’innovazione verso una simile trasformazione e la qualità dell’operatore pubblico e delle istituzioni democratiche in grado di operare in tal senso.

La costruzione della cornice progettuale necessaria non può non essere molto ambiziosa, perché c’è bisogno di sottoporre a critica sia la “razionalità politica” dell’innovazione, sia la sua “razionalità scientifica”, in particolare la “razionalità dell’algoritmo”, con la sua pretesa di corrispondere a una naturalizzazione oggettiva volta a trasformare tutti i fenomeni in stati di necessità chiusi allo spazio dell’alternativa.