Assenti, per non dire rimossi, dalla storiografia, gli anni Ottanta attendono ancora una generazione di storici capace di interpretarli nella lunga durata della storia d’Italia. Non è casuale che siano nati proprio in quel decennio gli organizzatori dell’incontro fiorentino «Persistenze o rimozioni?», realizzato con la regia Michelangela Di Giacomo e con l’appoggio dell’Istituto Gramsci toscano allo scopo di coinvolgere un gruppo di studiosi indipendenti (e precari) interessati a approfondire le radici della crisi politica e culturale del nostro tempo. Il risultato è un insieme di ricostruzioni di storia politica di notevole interesse che hanno saputo evitare visioni troppo unitarie o unificanti, mettendo in luce, piuttosto, la complessità nei movimenti, nei partiti e negli ambienti culturali protagonisti della storia più recente.

Gli anni Ottanta rappresentano un periodo di frattura rispetto al decennio precedente, ma anche di persistenza, per non dire di incubazione, di quella crisi dei partiti tradizionali che porterà all’affermazione del «berlusconismo». Dopo la stagione dei movimenti sociali, delle riforme e dei diritti civili si assiste ad un chiaro riflusso culturale che, per certi versi, acuisce la crisi del sistema ma, in realtà, la tiene in vita, a destra come a sinistra. È evidente quindi che ci troviamo di fronte a forti dinamiche di cambiamento. Il quadro internazionale vede la crisi delle sinistre e si muove su posizioni neo-liberiste che investono il quadro sociale.

Sul piano economico, le riconversioni industriali, collegate ai primi processi di globalizzazione e finanziarizzazione, convergono con il ristagno meridionale, con la riduzione della rappresentatività dei sindacati e i mutamenti nella composizione della forza-lavoro (contrazione dell’apparato produttivo e crescita del terziario). Su quello culturale, infine, è fondamentale l’affermazione del potere dei mass media in una società sempre più individualizzata e atomizzata: è di questa de-ideologizzazione che si nutre il «craxismo» con la sua governabilità «presidenzialista», pagata a caro prezzo dal paese con l’inizio dell’impennata del debito pubblico. Ecco allora che il concetto di «società civile» o il termine «questione morale» necessitano di distinzioni precise: una cosa è quella «berlingueriana» che agisce ancora all’interno della “diversità” comunista e punta al rinnovamento del sistema politico (Roberto Colozza), un’altra è quella del movimento della Rete di Leoluca Orlando, che si propone un superamento della forma partito (e della cleptocrazia) e anticipa toni e contenuti della svolta carismatica e antipartitica degli anni Novanta (Luigi Ambrosi).

Al di là delle significative precisazioni sulle differenziazioni interne alle minoranze politiche, come nel caso del Msi e del suo neopopulismo che poi si normalizza (Gregorio Sorgonà), o sull’ondivago percorso della Lega Nord, della quale si evidenziano due fasi ben distinte e completamente diverse, dalla nascita all’integrazione nel sistema (Massimo Piermattei), ciò che più conta ai fini di una dinamica di lungo periodo è la chiave di lettura complessiva.
Il punto di snodo cruciale è l’anno che va dal febbraio ’84 ai primi mesi dell’85 quando fu varato il nuovo Concordato di Craxi e fu votato al Senato il decreto Berlusconi bis. Non è un caso che in queste due vicende siano schierate tutte quelle forze che in seguito daranno linfa e poi manterranno in vita il «berlusconismo»: i socialisti, parte dei democristiani e dei partiti laici minori, il Msi e Comunione e Liberazione. Non stupisce, inoltre, che si trovino proprio in questo periodo i prodromi di quella «svolta ruiniana» (intervento diretto in senso conservatore dei cattolici in politica senza la mediazione della forma partito), alla quale papa Wojtyla ha contribuito (Alessandro Santagata).

Dopo la morte di Berlinguer (giugno ’84), nel Pci l’«opposizione debole» si manifesta in occasione della timidezza sulla revisione dei Patti lateranensi e sul decreto per le emittenze tv, non partecipando all’ostruzionismo degli indipendenti di sinistra e sottovalutando la portata culturale di quella decisione. Tutti questi aspetti, che saranno oggetto di approfondimento del network scaturito dai lavori di Firenze, sono fatti consequenziali di cui una storiografia seria e innovativa dovrà sicuramente tener conto.