L’accusa è sulla bocca di tutti: Hamas ha fatto fallire la pace non accettando il cessate il fuoco uscito dal cilindro egiziano e prontamente accolto da Tel Aviv. Tutta colpa di Hamas. La realtà è diversa, fatta di incontri e telefonate segrete, interessi che si accavallano e l’esclusione del movimento islamista dalla discussione. Le mani in pasta le hanno tutti: il premier israeliano Netanyahu (che avrebbe preparato il cessate il fuoco in una chiamata segreta con il presidente egiziano Al-Sisi), Il Cairo che non nasconde il desiderio di indebolire il nemico Hamas, l’Autorità Palestinese.

Ieri Abbas è volato nella capitale egiziana dove oggi incontrerà l’ex generale Al Sisi, a cui proporrà il dispiegamento di una forza dell’Autorità Palestinese che supervisioni il valico di Rafah e i 14 km di confine tra Striscia e Egitto. Un’interposizione che potrebbe essere applicata anche ad Erez, valico tra Gaza da Israele. L’Anp invierebbe un commando di guardie presidenziali che addestri ufficiali gazawi, dispiegati al confine e stipendiati da Ramallah. Abbas punta a presentarsi come mediatore tra la fazione palestinese (alleata-avversaria) e la controparte israeliana di cui tutela la sicurezza in Cisgiordania. A Tel Aviv l’idea non dispiacerebbe.

Ieri il presidente dell’Anp ha incontrato al Cairo Moussa Abu Marzouk, leader di Hamas, per discutere dell’iniziativa egiziana. Venerdì vedrà invece il capo del politburo islamista Meshaal, in Turchia, alla presenza del ministro degli Esteri del Qatar: Ankara e Doha sono i riferimenti di Hamas, che vede nella loro mediazione opportunità più favorevoli. Intanto voci contrarie alle iniziative unilaterali del presidente Abbas sono arrivate dall’Olp, dove c’è chi critica «l’esclusione e l’umiliazione del movimento islamista» a cui non è stato chiesto cosa voglia.

Già, Hamas. Cosa chiede? Ieri il portavoce Abu Zuhri ha comunicato all’Egitto il rifiuto del cessate il fuoco nei termini previsti ma solo fino alla soddisfazione delle richieste del movimento: ovvero il movimento è aperto a nuove proposte. Nei media locali gira un decalogo che indicherebbe le condizioni per la tregua. Dai vertici nessuna conferma e a Gaza c’è chi li ritiene veri solo in parte. Hamas chiederebbe un deciso allentamento dell’assedio: allontanamento dal confine dei veicoli militari israeliani e riconsegna della buffer zone ai contadini palestinesi; riapertura dei valichi di frontiera, sia per i residenti che per l’ingresso di materiali da costruzione e materiali necessari all’impianto elettrico; apertura del porto e dell’aeroporto sotto la supervisione Onu; definizione del limite delle acque territoriali a 6 miglia nautiche, entro le quali i pescatori siano liberi di pescare; apertura di Rafah sotto la supervisione internazionale e ricostruzione della zona industriale.

A ciò si aggiungono punti politici: liberazione dei prigionieri arrestati dopo la scomparsa dei tre coloni e di quelli catturati dopo essere stati rilasciati con l’accordo Shalit; tregua di 10 anni; permessi di ingresso in territorio israeliano e a Gerusalemme per i gazawi; e infine impegno israeliano a non interferire nelle questioni interne palestinesi, in particolare nell’accordo di riconciliazione con Fatah, uno degli obiettivi dell’offensiva militare.

Hamas non molla l’osso del governo di unità nazionale, consapevole della propria debolezza politica, della necessità di uscire dall’isolamento regionale in cui è finita dopo la caduta dei Fratelli Musulmani in Egitto e del bisogno di tornare a riaffermarsi in Cisgiordania. Da parte sua l’Anp tentenna, sospesa tra la necessità di non perdere ulteriore consenso popolare (riottenuto con il riavvicinamento a Hamas) e la tentazione di scaricare definitivamente la fazione avversaria. Una tregua negoziata da Ramallah rafforzerebbe Abbas, oggi visto da gran parte dei palestinesi come un burattino nelle mani israeliane.

Alla finestra sta Netanyahu. Bibi balla da solo: non ha comunicato al suo governo l’intenzione di cercare una tregua (il ministro delle Finanze Bennett e quello degli Esteri Lieberman lo hanno scoperto aprendo il giornale, si vocifera nei corridoi governativi) e negozia con gli egiziani bypassando gli Stati Uniti. Il segretario di Stato Usa Kerry, in procinto di volare al Cairo e a Tel Aviv, è stato scaricato da Al-Sisi e Netanyahu, che hanno entrambi cancellato la visita. Bibi ha bisogno di rafforzare la sua posizione in una coalizione indisciplinata: l’attacco a Gaza, pianificato da tempo, è lo strumento migliore per raccogliere un consenso forzato ma necessario, mettendo a tacere le pericolose voci di dissenso degli ultranazionalisti. La prima vittima è il vice ministro della Difesa, Danon, licenziato martedì per le critiche mosse alla proposta di cessate il fuoco. Colpirne uno per educarli tutti.

Il balletto danzato da Al-Sisi e Netanyahu vuole indebolire Hamas e costringerlo alla resa. C’è un elemento che, però, potrebbe cambiare le carte in tavola: dopo l’operazione “Colonna di Difesa” del 2012 che ne annientò quasi completamente l’arsenale, in meno di due anni Hamas è stata in grado di ricrearlo di nuovo, più numeroso e efficace: migliaia di missili – provenienti dall’Iran – che coprono distanze sempre più ampie e si avvicinano agli obiettivi strategici, rendendosi difficilmente intercettabili dal costosissimo sistema Iron Dome. Ad oggi, secondo dati dell’esercito israeliano, i razzi distrutti dal sistema anti-missile sono circa il 20% del totale.

Hamas ha costantemente migliorato la propria intelligence e l’addestramento militare dei miliziani e reperito armi sofisticate. E nonostante la propaganda israeliana che esagera da una parte il pericolo rappresentato dai missili per generare panico nella popolazione e dall’altra l’efficacia di Iron Dome, secondo fonti militari israeliane l’arsenale di Hamas sarebbe stato intaccato di meno di un terzo. Anche Israele ha bisogno della tregua e questo regalerebbe qualche punto ad Hamas.