Fra qualche giorno, forse già in settimana, Marco Minniti debutterà sui social con un blog, un account twitter e uno facebook. In queste ore, in attesa della data ufficiale delle primarie – la commissione dovrebbe decidere oggi, un appello chiede di anticiparla rispetto al 3 marzo – l’ex ministro dell’interno lavora alla definizione degli incarichi organizzativi della corsa per le primarie Pd: il comitato, il responsabile della mozione, quello dei rapporti con la stampa, le organizzazioni nelle regioni. Tutte scelte delicate per gli equilibri nella sua cabina di regia. Fra queste c’è anche quella dello sbarco nella rete. In realtà non sarà direttamente lui il protagonista di cinguettii e post ma la sua corsa congressuale, forse «Minniti segretario».
Così anche l’ex ministro degli interni si sarebbe arreso alla modalità «always on», sebbene per interposta persona. Lui che sperava in una classica campagna congressuale il più possibile dentro i canali del partito, come ai bei vecchi tempi. Ma il partito non c’è più e i tempi sono andati. «Siamo gente da ciclostile», si schermisce il suo amico Nicola Latorre.

Eppure Minniti potrebbe fare di necessità virtù: l’appeal di un candidato poco ciarliero potrebbe sparigliare i luoghi comuni sulla comunicazione. «Sui social il silenzio può dar peso ai contenuti che sui social vanno comunque», spiega Massimo Micucci, lobbista e comunicatore, fondatore della società Reti con Claudio Velardi, celebre «lothar» dalemiano come Minniti e Latorre. Per Micucci «oggi un leader taciturno può funzionare. E può funzionare forse anche più di un leader che tenta l’impossibile rincorsa dei personaggi politici massicciamente presenti in rete. Basti pensare che al top delle classifiche dei più apprezzati ci sono proprio tre leader tendenzialmente ’silenziosi’: Gentiloni, Mattarella e Conte».

A gestire la sua immagine social sarà uno staff di giovani smanettoni al quale è affidato il compito di fare i conti con un osso duro, un candidato particolarmente refrattario alla rete. Per ragioni evidenti e apprezzabili: a parte la formazione da uomo di partito, più a suo agio con un volantino che con il trending topic, prima dell’ascesa alla guida del Viminale Minniti è stato sottosegretario alla difesa (governo D’Alema), viceministro dell’interno (secondo governo Prodi) e sottosegretario con delega ai servizi segreti (governo Letta e Renzi). Un uomo di governo dunque molto più interessato alla «back diplomacy» – e cioè alle relazioni e ai rapporti diplomatici lontani dalla luce dei riflettori, come scrive nel suo libro Sicurezza è libertà – che alla chiassosa agorà dei commenti politici. Non a caso nell’agosto del 2017 il New York Times lo definì «the Lord of the Spies». Minniti dunque farà di necessità virtù: avrà gli account della sua campagna elettorale per gli appuntamenti e le principali comunicazioni della sua corsa. Ma personalmente resterà così com’è lui, «poco social», in intenzionale controtendenza rispetto ai suoi sfidanti. E agli antipodi rispetto allo stile del suo grande elettore Matteo Renzi.