Pensare che il Ddl Pillon sia solo o essenzialmente la risposta alle «lobby» rancorose dei padri separati è fare torto a un programma che mira molto più in alto e in profondità. A sottolinearne la portata culturale, sociale e politica, hanno provveduto due dichiarazioni pubbliche.

Quelle dello stesso Pillon e del ministro della Famiglia, Fontana: matrimonio indissolubile, no aborto, ridefinizione del diritto di famiglia. Le grandi conquiste del femminismo degli anni Settanta ci sono tutte e, se si aggiungono alcuni passaggi non meno rilevanti venuti in seguito – la legge sulla violenza sessuale, le unioni civili, il riconoscimento delle coppie dello stesso sesso e della omogenitorialità – non c’è che dire, il Ddl Pillon vuole essere una controriforma in piena regola.

Con la svolta antiautoritaria del ’68 e in particolare con la «rivoluzione» portata dal movimento delle donne nel rapporto di potere tra i sessi, e quindi nella famiglia, nei ruoli tradizionali del maschio e della femmina, è come se il conto non fosse mai stato chiuso. La determinazione con cui il governo Lega e M5s, in nome della sicurezza e del ripristino dei valori di patria e di italianità, si è avviato a un controllo sempre più poliziesco del corpo sociale, deve aver fatto cadere la barriera che ha impedito finora una restaurazione vendicativa. Al di là del dibattito che ha suscitato e delle voci che da più parti ne hanno chiesto il ritiro, viene da chiedersi che accoglienza potrebbe avere una legge di questo genere, qualora fosse approvata, da parte delle donne e degli uomini del nostro paese.

Aver messo in primo piano, insieme all’affido condiviso, la «garanzia di bi genitorialità» è stato sicuramente una scelta da non sottovalutare, per il suo duplice ambiguo significato. Mentre va incontro a un cambiamento delle coscienze e dei desideri, che vuole la crescita e la cura dei figli non più come compito esclusivo delle madri – e quindi l’uscita dalla divisione sessuale del lavoro -, è impossibile non vedere in trasparenza la finalità prima del Ddl: mettere ordine nella disgregazione delle figure e dei ruoli parentali – un padre, una madre – rimaste per secoli il fondamento «naturale» della famiglia e dell’eterosessualità. Giustamente, le analisi che circolano ormai da tempo sul progetto Pillon – e da cui è partito l’appello per una manifestazione nazionale il 10 novembre- invitano a vedere le ricadute fortemente restrittive che avrebbe, di fatto, sulla libertà delle donne: l’obbligatorietà della mediazione famigliare, il mantenimento diretto dei minori, che presuppone la stessa capacità contributiva, il pregiudizio sulla facile manipolazione dei figli ad opera delle madri, renderebbero difficili separazioni e divorzi anche consensuali, e diventerebbero un vero ostacolo nel caso di maltrattamenti e violenze manifeste in ambito domestico.

Del resto, non è proprio questa «imprevista» comparsa, dopo il lungo domino patriarcale, di una soggettività o singolarità femminile, slegata da un destino omologante di “genere” e da una “naturale” colonizzazione, a sconvolgere oggi gerarchie di potere, abitudini e pregiudizi culturali, a dire che il sessismo e i suoi correlati-razzismo, omofobia, fascismo, militarismo, ecc – sono “nudi”, esposti quanto basta per poter solo essere mascherati, contrabbandati per altro o rafforzati a oltranza da politiche reazionarie? Portando l’attenzione sull’“uguaglianza” tra i sessi, come era già successo per l’emancipazionismo femminile, si finisce inevitabilmente per rendere più evidenti le “differenze” che ne hanno segnato la storia in tutte le civiltà. Ed è quello che è accaduto anche nel dibattito sul Ddl Pillon: «Il mantenimento diretto – scrive Manuela Ulivi, presidente della Casa delle Donne Maltrattate di Milano – fa passare l’idea che ogni genitore possa dare la figlio pari tenore di vita. Ma sappiamo bene che non è vero: sono le donne a lasciare il lavoro quando nasce un figlio, sono loro che vengono penalizzate nel fare carriera e sono sempre loro a guadagnare di meno». E a proposito dell’obbligatorietà della mediazione famigliare – è sempre Ulivi a sottolinearlo – «L’esperienza insegna che non si può condividere con il maltrattante neppure l’informazione di aver deciso di chiudere il rapporto». Sulla riappropriazione del potere e del controllo maschile sul corpo delle donne si sofferma la petizione dei Centri antiviolenza D.I.R.E: il Ddl non terrebbe conto, tra le altre cose, del «pregiudizio per cui sono le donne a essere viste come responsabili degli atti violenti, e non vittime (…) colpevoli di non essere riuscite a tenere insieme la famiglia e di impedire la relazione dei padri coi figli».

Gli appelli, le mobilitazioni delle reti femministe, come NUDM, i giudizi fortemente critici di giuristi e giuriste, sicuramente non basteranno a placare la rivalsa dei padri, sostenuta oggi dal clima di intolleranza e repressione dominanti, ma che consenso avranno presso le donne che ancora trovano nella “differenza” tradizionale – la maternità, la cura e il lavoro domestico – un potere di indispensabilità sostitutivo di altri poteri a loro negati; o che cercano nel marito padre dei loro figli il complemento della loro “diversa natura”? Le figure di genere ormai sono al centro di un terremotamento che promette libertà per entrambi i sessi , ma che, al medesimo tempo, crea incertezza per l’assenza di modelli, inquietudine per l’avanzare di nuove forme di intimità. Se si dimentica che hanno strutturato finora sia rapporti di potere che d’amore, non riusciremo a capire perché abbiano tanta durata e perché oggi, tra le forze che spingono verso il ritorno ai valori tradizionali della virilità o del patriarcato, la presenza femminile sia tutt’altro che trascurabile.