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Il ddl arriva in Senato, ma il testo è già cambiato

Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Antonio Tajani durante la conferenza stampa dopo il consiglio dei ministri foto AnsaGiorgia Meloni con Salvini e Tajani – Ansa

Premierato Nuovo pasticcio: sparisce la scheda unica: premier e camere eletti «contestualmente». I rischi di un'"anatra zoppa", pesa ancora di più l'assenza del ballottaggio

Pubblicato 10 mesi faEdizione del 19 novembre 2023

E’ dunque ufficiale: il governo ha trasmesso al Senato il disegno di legge di riforma costituzionale che introduce il premierato elettivo, in un testo diverso da quello approvato dal Consiglio dei ministri il 3 novembre scorso. La bozza bollinata dalla Ragioneria generale dello Stato circolata nei giorni scorsi già conteneva la significativa modifica, ma la pubblicazione sul sito del Senato del testo conferma questo fatto che va spiegato negli aspetti in parte inquietanti.

Nel ddl licenziato il 3 novembre si leggeva che il presidente del Consiglio «è eletto a suffragio universale e diretto per la durata di cinque anni» e che «le votazioni per l’elezione del presidente del Consiglio e delle Camere avvengono tramite un’unica scheda elettorale». Nella versione definitiva scompare la votazione tramite scheda unica:

«Le votazioni – si legge – per l’elezione delle due Camere e del presidente del Consiglio avvengono contestualmente». Sfumature linguistiche? Niente affatto, cambia il sistema rendendone incerti gli esiti e fa capire una intenzione inquietante della maggioranza sulla legge elettorale.

La scheda unica rifletteva l’idea del “sindaco d’Italia”, con il futuro premier che trascinava la propria maggioranza parlamentare. L’elettore sulla stessa scheda apponeva la croce sul nome del candidato/candidata premier e sceglieva automaticamente un partito della sua maggioranza. La nuova versione implica che il cittadino avrà in mano tre schede: una con cui scegliere il candidato premier, e le altre due per scegliere gli eletti del suo collegio alla Camera e al Senato. Si apre quindi la strada al voto disgiunto, tra quello al candidato premier e quello ai candidati al Parlamento.

Se già con il sistema della scheda unica era possibile che alla Camera vincesse un candidato premier e al Senato un altro, con il nuovo sistema diventa tutto più aleatorio, tanto da dar vita a una roulette russa. Lo scenario del doppio vincitore permane, ma se ne aggiunge un altro in grado di delegittimare il candidato premier vincitore.

Con la separazione delle schede, infatti, è naturale che un candidato forte in un collegio della Camera o del Senato (perché radicato sul territorio) abbia più chance di andare a caccia di preferenze anche al di fuori dell’elettorato della sua coalizione. Quindi, per fare un esempio non fantascientifico, si potrebbe verificare uno scenario in cui si afferma il candidato premier di una coalizione (es. centrodestra), ma i voti complessivi sulle schede della Camera e/o del Senato dell’altra coalizione (es. centrosinistra) siano superiori a quelli del premier vincente. È vero che quest’ultimo trascinerebbe la propria maggioranza in Parlamento, ma politicamente la sua investitura popolare sarebbe dimidiata.

Un centrosinistra unito, con i molti sindaci spesso eletti già al primo turno con alte percentuali, avrebbe in mano un’arma formidabile. Ma l’eliminazione della scheda unica e l’adozione del voto contestuale manifesta anche una intenzione inquietante del governo. Il sistema del “sindaco d’Italia”, cioè l’elezione della carica apicale che traina la propria maggioranza parlamentare, implica che il quorum per ottenere il premio sia del 50%, non raggiungendo il quale si ricorre al ballottaggio. Avviene così per l’elezione diretta del sindaco, in Italia, avviene così in Francia per l’elezione del presidente della Repubblica e in molti regimi presidenziali.

L’aver evitato questo sistema in favore dell’elezione contestuale consente al centrodestra di puntare a un quorum molto più basso. Provocatoriamente il sottosegretario Fazzolari aveva parlato di una soglia «superiore al 30%», e diversi quotidiani hanno pubblicato retroscena in cui la soglia a cui starebbe lavorando la ministra Casellati si attesterebbe al 40%, il quorum minimo indicato dalla Corte costituzionale nel 1917 nella sentenza che bocciava l’Italicum. Ma quella legge non prevedeva l’elezione diretta del premier. Insomma, sarebbe un sotterfugio per aggirare il 50% indispensabile in ogni elezione diretta di una carica apicale.

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