La visita a Bruxelles di un ministro dimissionario non poteva produrre di più. A Carlo Calenda la commissaria europea alla concorrenza Margrethe Vestager ha dato solo un generico impegno ad essere «intransigente nel verificare i casi segnalati in cui c’è un problema o di uso sbagliato o non consentito degli aiuti o, peggio, di aiuto di Stato per attrarre da Paesi che sono parte dell’Ue», come spiegato dallo steso ministro italiano. Vestager infatti ieri non ha fatto alcun commento ufficiale ma dovrebbe parlare di Embraco oggi.
Tutti – anche Calenda – sono coscienti che i tempi sono troppo stretti perché Vestager possa intervenire contro la Slovacchia che offre tappeti rossi a chi si sposta da loro. È falsa anche la promessa del ministro di «far applicare la clausola contrattuale obbligatoria negli accordi di finanziamento» contro chi delocalizza che dovrebbe «accertare la Guardia di finanza»: la norma è stata introdotta da Calenda lo scorso maggio e non è retroattiva mentre Embraco i soldi pubblici – dalla Regione si stimano 15 milioni – li ha presi nel 2004 e nel 2012.
E se l’unica speranza dunque è impersonificata dalla re-industrializzazione di quella «Invitalia che è partita con la mappatura di altri progetti alternativi», un carrozzone burocratico monopolizzato da 10 anni da Domenico Arcuri senza risolvere in proprio alcuna crisi aziendale, si capisce come le speranze dei 497 lavoratori diretti e della trentina di indiretti della multinazionale brasiliana dei compressori per frigoriferi siano ridotte al lumicino.
Per trovare un nuovo imprenditore ci sono solo 35 giorni. Sabato scadono i 45 giorni per trovare un accordo che eviti il licenziamento collettivo. Giovedì alle 16 all’Unione industriali di Torino ci sarà l’ultimo incontro azienda-sindacati e le posizioni rimarranno le stesse: l’azienda riproporrà l’idea di trasformare i contratti in part time fino alla chiusura, i sindacati diranno no.
«Proprio per questo Calenda non se la può cavare con le battute, chiamando “gentaglia” i consulenti del lavoro di Embraco», attacca Giorgio Airaudo, parlamentare e candidato di Leu anche ieri presente al presidio davanti alla fabbrica. «Non dico che dovrebbe fare come Donat Cattin che mandò i carabinieri a prendere Valletta che non voleva partecipare ad un tavolo Fiat al ministero, ma almeno andare a bussare alla porta della Whirlpool è il minimo sindacale per un ministro degno di questo nome. Scaricando tutto sull’Europa, Calenda sta buttando la palla in tribuna», chiude Airaudo.
L’altra accusa al governo e alla politica in generale è quella di essersi accorta solo adesso delle delocalizzazioni. I dati confermano che il processo va avanti da almeno 15 anni. Elaborando i dati del database Erm (European restructuring monitor) di Eurofound i ricercatori dell’associazione culturale Punto Rosso Matto Gaddi e Nadia Garbellini hanno stabilito come nelle sole aziende sopra i 100 dipendenti dal 2002 al 2016 le delocalizzazioni subite dal nostro paese sono ben 62 con una perdita di 14.364 posti di lavoro, tutte nel settore manifattura. «Dopo l’allargamento a est dell’Unione europea le delocalizzazioni sono quasi tutte verso questi paesi perché non si possono più mettere dazi che invece si usano nei confronti della Cina o di altri paesi asiatici – spiega Matteo Gaddi – . L’altro elemento importante è che vengono delocalizzati non i prodotti finiti ma le lavorazioni di subfornitura a più alta intensità di lavoro anche perché in questo modo dall’Est europa i prodotti possono arrivare velocemente in occidente ed essere assemblati», conclude Gaddi.
La ricetta di Calenda per affrontare questo decennale processo è «un fondo di aggiustamento per la globalizzazione da parte del governo, che aumenti l’intensità degli aiuti concessi nei casi di deindustrializzazione». Come affrontare un tifone con un solo ombrello.