Il datagate torna a casa
Washington Il gigantesco apparato costruito per gestire il conflitto totale si sta ritorcendo contro gli Usa. Ma per quanto in difficoltà, Obama non rinuncia al ruolo dell’Amerca come poliziotto del mondo
Washington Il gigantesco apparato costruito per gestire il conflitto totale si sta ritorcendo contro gli Usa. Ma per quanto in difficoltà, Obama non rinuncia al ruolo dell’Amerca come poliziotto del mondo
È più grave sorvegliare 3 miliardi di persone o monitorare i telefonini di 35 capi di stato? Per Barack Obama è una domanda che non ha una buona risposta. Quel che è certo è che l’intercettazione di telefonini e mail dei più stretti alleati, al di là del galateo e del protocollo diplomatico, infrange la pretesa di sicurezza nazionale come indiscutibile «causa di forza maggiore» con la quale nell’era della guerra totale al terrorismo, viene giustificata ogni trasgressione e abuso di potere. È infatti con una sorta di legge marziale planetaria che a Washington si razionalizzano prigioni segrete, incursioni di forze speciali in paesi sovrani, rendition, bombardamenti telecomandati e la sorveglianza nazionale e internazionale.
A meno però di non iscrivere Angela Merkel o Felipe Calderón (il presidente messicano la cui posta elettronica veniva dirottata dalla Nsa direttamente sui server di Washington) negli elenchi dei sospetti terroristi, ora il teorema della forza maggiore diventa politicamente più difficile da sostenere. Da qui l’importanza «strategica» delle ultime rivelazione di Edward Snowden sulle intercettazioni mirate ai leader «amici». Anche se concretamente la sorveglianza dei cittadini di tutti i paesi è un dato ancor più grave, è lo scandalo dei telefonini eccellenti a provocare più mal di testa a Washington. Resta da vedere se stavolta l’ondata di scalpore porterà a qualcosa di più delle marcate proteste, ad un effettivo movimento di opposizione, ad esempio, in cui gli interessi di stati sovrani e comuni cittadini convergano contro l’incontrastata egemonia «informatica» americana.
Di certo questo non è un buon fine settimana per la Casa Bianca. Ieri c’è stata la riunione di Bruxelles in cui i servizi americani sono stati all’ordine del giorno per tutti i motivi sbagliati. Contemporaneamente al palazzo di vetro incombe un dibattito che Obama avrebbe preferito non vedere, quello sull’uso dei droni e se l’impiego delle incursioni telecomandate che avrebbero provocato oltre 4000 morti fra civili in Pakistan, Yemen e Somalia, possano costituire crimini di guerra. E oggi sul strade di Washington sfila la prima manifestazione popolare contro il programma Prism e la sorveglianza sistematica. La mobilitazione è stata indetta da una dalla coalizione Stop Watching Us (smettete di sorvegliarci) a cui ci aderiscono figure come lo stesso Snowden, Glen Greenwald, Ai Wei Wei, Daniel Ellsberg, Maggie Gyllenhall, John Cusack e Oliver Stone. Questi ultimi hanno collaborato a un video che chiede l’immediata fine dell’ingerenza del governo nella privacy dei cittadini di tutto il mondo, evocando lo spettro di precedenti «anomalie» americane come J Edgar Hoover e Richard Nixon (che al confronto di ciò che sta avvenendo oggi francamente impallidiscono).
Nel quattordicesimo anno dell’era della segretezza», il mastodontico apparato creato per gestire il conflitto totale comincia insomma forse a ritorcersi contro gli Stati uniti ed estrarre un reale prezzo politico.
Il primo passo nella deriva covert seguito all’11 settembre, fu il patriot act, la legge che ha gettato le basi per la sorveglianza interna e i nuovi poteri di polizia, poi l’istituzione della homeland security, il nuovo ministero della sicurezza e in seguito la giustificazione «legale» della tortura; tutte misure introdotte da Bush (anche i documenti sullo spionaggio tedesco risalgono infatti al 2006) ma in seguito proseguite, e potenziate, da Barack Obama.
L’attuale presidente ha adottato la guerra segreta come politica «ufficiale» e contemporaneamente ha dichiarato guerra aperta alla controinformazione, perseguendo non solo Bradley Manning ed Edward Snowden ma tutte le fonti «non autorizzate» di cui si servono i giornalisti. Una criminalizzazione sistematica dell’informazione che come sostiene Julian Assange ha di fatto legittimizzato il concetto di uno stato ombra.
La politica estera di Obama ha esplicitamente ribadito e rafforzato la dottrina dell’eccezionalità che ha caratterizzato il «secolo americano» ma si trova ora ad un punto di crisi globale. Non può sorprendere l’ira dei leader alleati costretti a scoprire sul Guardian, Le Monde e Der Spiegel che l’amico Obama ascoltava le loro telefonate private. La stessa spiacevole sorpresa l’aveva avuta un mese fa Dilma Rousseff quando ha appreso che il partner americano teneva sotto controllo il suo cellulare oltre a spiare l’ente petrolifero nazionale Petrobras. La presidente del Brasile si era tolta la soddisfazione di inveire contro le occulte politiche americane in un infuocato discorso all’Onu, a pochi passi da un imbarazzato Barack Obama, prima di annullare clamorosamente la sua visita di stato a Washington. Rousseff aveva chiesto allora al consiglio di sicurezza di prendere le misure necessarie ad «evitare che il ciberspazio venga convertito ad arma di guerra».
Dichiarazioni cui ora ha fatto eco il presidente del parlamento Ue con la sua accusa di «servizi fuori controllo». E l’altroieri è giunta notizia di un iniziativa congiunta proprio di brasiliani e tedeschi per formalizzare all’Onu una risoluzione mirata ad arginare le attività «illecite» degli americani.
Se a New York c’è maretta a Bruxelles certo non tira buona aria per Obama e la lista delle capitali in cui vengono convocati gli ambasciatori americani e sbattute le porte si allunga. Come avvenuto nel 2010 con le rivelazioni Manning/Wikileaks il dipartimento di stato sta freneticamente tentando di tappare le falle e prevenire stati amici su ulteriori scomode rivelazioni. Significativa a questo riguardo però l’analisi di un ex funzionario dello state department che a Foreign Policy ha dichiarato: «È la dimostrazione della tossicità delle rivelazioni di Snowden», attribuendo cioè il il problema non già allo spionaggio in se, ma alla sua scoperta. Così Obama è costretto a chiedere scusa ai partner mentre John Kerry fa i doppi turni in giro per il mondo promettendo di non farlo mai più. Ma realisticamente non c’è ad aspettarsi molto dal presidente che dopo il caso Snowden dichiarava «effettivamente necessario un dibattito sulla sorveglianza», mentre allo stesso tempo giungeva a far atterrare il presidente della Bolivia per perquisire il suo aereo alla ricerca della talpa.
Pur nel mezzo dell’attuale crisi questa amministrazione non dà cenni di voler mettere in dubbio la fede scontata nell’eccezionalità e nel ruolo dell’America come poliziotto del mondo.
Una concezione fondamentalmente basata sull’espansione globale del paradigma di guerra che converte il mondo nel campo di battaglia di un conflitto «asimmetrico».
Un concetto che giustifica le incursioni dei predator come «umanitarie» e le intercettazioni come normali e necessarie. E nel mondo post-privacy la supremazia nella sorveglianza – in cui certo pochi paesi sono semplici spettatori -, è l’obiettivo di una corsa agli «armamenti informatici», una gara che, col loro vasto apparato sommerso di spionaggio cibernetico, gli Usa stanno vincendo. Per quanto possano protestare le cancellerie indignate di mezza Europa, è chiaro che tutti gli stati si adoperino per spiare gli uni sugli altri e tutti, chi più chi meno, sui propri cittadini. Ma in fatto di tecnologia gli Usa sono ancora una superpotenza grazie in gran parte al sodalizio col settore privato. Due terzi delle ricerche mondiali passano dai motori Google, Facebook gestisce un traffico pari a un terzo degli utenti planetari di internet, Microsoft produce ancora il 90% dei sistemi operativi e il traffico cloud passa pur sempre per Silicon Valley; la rete sarà anche immateriale ma i server hanno pur sempre un peso specifico e internet «vive» in gran parte in California.
Un dato che offre oggettivi vantaggi a chi quei dati li vuole controllare. La Nsa, che sta costruendo un mastodontico complesso per l’immagazzinamento dati in Utah, ha annunciato di poter portare il numero di comunicazioni intercettate da 2 miliardi a 20 miliardi al giorno. Il 90% delle informazioni custodite nei computer top secret sono state raccolte solo negli ultimi due anni. Non esattamente la fotografia di un inversione di rotta: come ha dichiarato Michael Hayden, ex direttore della Nsa a Bloomberg News: «Nell’estrarre informazioni da archivi avversari, nessuno ci batte». Dove per avversari evidentemente si intende il resto del mondo, tutti noi compresi.
Sull’intelligence e sul controllo dell’informazione si decide insomma una cruciale questione di egemonia politica e commerciale. E qui datagate potrebbe avere un costo concreto se è vero, come sostiene Julian Assange, che minaccia di incrinare il monopolio informatico americano decretando un progressivo esodo di clienti ad esempio da social network e servizi «nuvola» basati negli States, una perdita che secondo Assange potrebbe ammontare presto a un danno di 30 miliardi di dollari. Saranno significativi in questo senso anche le eventuali ripercussioni di datagate sui prossimi negoziati del trattato di libero scambio fra Usa e Europa.
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