Quando si parla di soft power della Cina, cosa si intende? La capacità di creare un’immagine positiva nel mondo, in grado di equilibrare un’informazione che spesso descrive a tinte scure il Paese, sicuramente. Nella valutazione generale, però, pesa anche la capacità di Pechino di piegare al proprio standard di interpretazione, alcune vicende internazionali. Tra queste c’è la questione legata al Tibet e al suo leader spirituale in esilio, il Dalai Lama.

Chiarimo subito che Pechino – e la stragrande maggioranza dei cinesi – sulla questione tibetana ha una visione univoca: il Tibet è Cina, punto, non ci sono discussioni. Viene inoltre sottolineato come il governo cinese abbia di fatto tirato via dalla povertà e dalla tirannide medievale dei monaci la popolazione locale, portando strade, infrastrutture, turismo, benessere, in un luogo sul quale, fino a soli cinquant’anni fa, regnava una teocrazia feudale. Il contrappeso di questa visione, è il dato di fatto di un’invasione di cinesi han (analoga a quanto avviene nell’altra regione «delicata», il Xinjiang), l’ottusità di Pechino sui temi culturali e religiosi e il fatto di aver trasformato luoghi considerati culla della spiritualità tibetana in baracconi degni di Disneyland.

Dato questo, è sicuramente vero che il fastidio cinese di fronte agli inviti internazionali dei paesi al Dalai Lama, e la potenza economica della Cina, cominciano a dare i frutti. Negli ultimi anni sono tanti gli Stati che hanno rifiutato un visto al Dalai Lama, salvo poi sperticarsi in scuse di ogni genere, per non dire chiaro e tondo che il mancato invito ha come unico obiettivo quello di non irritare Pechino. Ne sa qualcosa la Norvegia, che si è vista tagliare il commercio di salmone con Pechino, dopo aver attribuito il Nobel della pace al dissidente in carcere Liu Xiaobo.

Era il 2009, e sembra passato un secolo. e recentemente Sudafrica, Russia e Norvegia stessa, hanno rifiutato la presenza del Dalai Lama ad eventi internazionali. Il Sudafrica – proprio ieri – ha negato di avere rifiutato il visto di ingresso al Dalai Lama per preservare le relazioni con la Cina in vista del summit mondiale dei Nobel per la Pace, che si sarebbe dovuto svolgere a Città del Capo. Lo stesso Dalai Lama, riferisce l’agenzia di stampa Sapa, citando un comunicato del portavoce presidenziale Mac Maharaj, ha informato il governo sudafricano che non avrebbe partecipato al summit, «annullando di fatto la sua richiesta di visto».

Ieri, il sindaco di Città del Capo Patricia de Lille, membro del partito di opposizione Alleanza Democratica, aveva affermato che il governo non ha concesso il visto al Dalai Lama per evitare di offendere Pechino e che il vertice – dal 13 al 18 ottobre – si terrà in un’altra sede (forse a Roma). Il summit si sarebbe dovuto tenere in Africa per la prima volta, ma dopo la notizia della negazione del visto, alcuni premi Nobel per la Pace hanno invece deciso di boicottarlo.

La mossa del Dalai Lama, ovvero annunciare la sua volontà di non partecipare al summit, potrebbe avere origini ben più rilevanti, inerenti a rapporti particolari proprio con la Cina. Secondo quanto annunciato dallo stesso Dalai Lama, 79 anni , sarebbe infatti in corso una trattativa con Pechino per un suo eccezionale viaggio, in Tibet. «Non è finalizzato, non ancora, ha detto all’Afp, ma l’idea è lì. Non formalmente o seriamente, ma in modo informale: è il mio desiderio».

Secondo l’autorità spirituale – che dal 2011 ha rinunciato al ruolo di guida politica e su cui pesa la decisione di Pechino di dichiarare finita l’epoca della «reincarnazione» del leader buddista fuori dal continente cinese – «Recentemente, alcuni funzionari cinesi, come ad esempio il vice segretario del Partito nella regione autonoma del Tibet, hanno anche menzionato la possibilità della mia visita, alla stregua di un pellegrinaggio in quel luogo sacro», intendendo il monte Wutai, considerato un luogo sacro dai tibetani.

Il Dalai Lama vive in esilio in India, fin dal 1959, quando la Cina dichiarò proprio territorio il Tibet. Gli esperti hanno espresso pessimismo sulla possibile visita, ricordando che Pechino, ha più volte fatto di intendere di aspettare la morte del Dalai Lama, per risolvere una volta per tutte la questione tibetana.