La città è avvolta da una nuvola di sabbia, dagli altoparlanti del taxi esce la voce di Fairuz e fuori dai finestrini sembra che tutto sia sospeso. Mosul est si presenta così, buia e poco trafficata. Sono le sette del mattino e c’è pochissima gente in giro. Un bambino pulisce il vetro del taxi ma invece che migliorare la visibilità la peggiora. L’autista gli lascia qualche lira irachena e al verde scatta.

QUESTA È LA PARTE più moderna della città, quella meno danneggiata. Ci dirigiamo verso l’università e non si può smettere di guardare fuori dal finestrino. Qualcuno dorme lungo la strada, altri sulle scale di qualche edificio, ma non ci sono file di disperati in giro. La tempesta di sabbia è in fase calante, ma ugualmente il sole non riesce a farsi spazio.

Quando si giunge all’università Jamaal, un operatore di Un Ponte Per nato poco lontano, nella cittadina di Karaqosh, ci presenta un’accademica. Lei ci guida verso la grande biblioteca, che è stata depredata e poi data alle fiamme: «Io mi sono laureata in archeologia proprio studiando in queste sale, dove il capitale di libri a disposizione era impressionante. Lo vedete da soli – ci dice accompagnandoci all’interno – non è rimasto in piedi nulla. Spezza il cuore vederla ridotta così».

Un combattente su un veicolo blindato (Foto di Ivan Grozny Compasso)

Diversi piani, non è rimasto nulla. Solo uno scaffale di ferro in tutto l’edificio. Un cassetto è semi aperto, così diamo una occhiata: ci sono dei micro film dove venivano custodite copie di alcuni testi particolarmente importanti.
Stare attenti a dove si mettono le mani e i piedi può essere decisivo a Mosul.

Basti pensare che nella sola giornata della visita all’università e alla parte est della città, sono morte ventiquattro persone a causa di mine o ordigni inesplosi innescati inavvertitamente. Tutti nella zona antica della città, Mosul ovest. La città è divisa in due dal Tigri e più ci si avvicina al fiume e più ci si rende conto che quello che troveremo non ha eguali. Forse neppure Raqqa è così malconcia. Forse.

Pattugliato pesantemente, il ponte è il punto dove si concentra la maggior parte del traffico. L’odore che si avverte è sempre più forte, più ci si avvicina al fiume più cresce. I ponti che collegano le due parti della città sono tutti a pezzi, tranne uno. Nell’aria una puzza che nell’immediato quasi ci si impone di non riconoscere, ma poi c’è l’evidenza.
Mosul ha un solo obitorio in tutta la città.

Moltissimi cadaveri sono sotto le macerie, impossibili da rimuovere. E Mosul ovest è macerie. I bombardamenti degli alleati per cacciare l’Isis dalla città hanno prodotto un cumulo di pietre una ammassata all’altra. Pietre antiche, di costruzioni che risalgono a diversi secoli fa e che mai nulla aveva scalfito.

CERTO, LO STATO ISLAMICO andava cacciato da questa parte della città ma molti qui sostengono che si sarebbe potuto anche spingerli fuori, portare la battaglia fuori dalla città, cosa che avrebbe comportato un intervento completamente diverso anche per numero di impiego di uomini, con il rischio di perderne molti. «Quelli dell’Isis – racconta un soldato iracheno – usavano le persone come scudi durante i bombardamenti».

Lo stesso soldato ci conduce in un vicolo. Jamal ci ricorda quanto sia pericoloso avventurarsi e toccare cose, quindi si raccomanda più volte di non farlo mai. Ma è difficile perché si cammina quasi sempre su pietre quando ci si sposta dalle poche strade ripulite, che sono quelle principali. Si entra in un edificio e si capisce solo dopo che questa era una chiesa. Qui è  dove venivano consumati dei processi sommari dopo duri interrogatori compiuti dagli uomini in nero.

Gli «interrogatori» invece si svolgevano di sotto, in quella che doveva essere la canonica. Entrati ci si rende conto subito di dove ci si trova: c’è un palo di acciaio con dei braccioli dove venivano legate, appese, le persone. A distanza di mesi dalla cacciata di Isis sulle mattonelle c’è ancora il segno del sangue. Alle pareti, appesi a un filo metallico, ci sono degli arnesi che si può solo immaginare a cosa siano serviti.

Il palazzo da cui i miliziani Isis gettavano gli uomini accusati di omosessualità (Foto di Ivan Grozny Compasso)

E poi cavi elettrici, come nella migliore tradizione dei torturatori. Usciamo, il soldato indica chiaramente dove non mettere il piede. C’è un piccolo ordigno proprio nascosto fuori dall’uscita. «Lo abbiamo individuato da un bel po’, questo come altri, ma serve uno che sappia rimuoverlo a ragion veduta, quindi intanto aspettiamo. Sai quanti ce ne sono sparsi per queste strade?».

Alcune delle poche porte ancora in piedi hanno dei segni con una scritta che Jamaal ci traduce: «Sono case dei cristiani che venivano confiscate e requisite». Usciti dal vicolo si cominciano a vedere persone. In tantissimi vivono ancora qui, nonostante le macerie. «E dove volete che andiamo», dice un signore. «Preferisco stare qui che finire in qualche campo profughi». Quando gli chiediamo che anni sono stati scuote la testa e accarezzando la testa del figlio dice: «Tranne l’aria, ci hanno portato via tutto. Facciamo anche il caso che le case un giorno le ripariamo. Ma dei nostri cuori che ne facciamo? Chi li ripara quelli?».

PER MANGIARE a Mosul ovest di fatto c’è un solo ristorante. «Qui portavano John Cantlie, il giornalista inglese, quando lo costringevano a girare quei video. Perché mica penserete che lo facesse di sua spontanea volontà, vero?». Subito fuori dal ristorante, sulla destra, un altro macabro luogo simbolo dei massacri di Isis: il palazzo dal quale giovani venivano scaraventati vivi dal tetto per la sola colpa di essere omosessuali.