«Coloro che sono stati fatti prigionieri durante la battaglia, non li tengono in vita. Sono destinati a essere uccisi e a servire da cibo, perché si mangiano tra loro, i vincitori mangiano i vinti, e la carne umana è tra loro un alimento comune. È un fatto assolutamente certo, perché si è visto un padre mangiare i suoi figli e le sue donne, e ho conosciuto un uomo col quale ho parlato del quale si diceva avesse mangiato più di 300 corpi umani. Ho anche passato 27 giorni in un villaggio dove ho visto nelle case la carne umana salata, sospesa alle travi di legno, proprio come si fa da noi con il lardo o con la carne di maiale».
Così, nell’operetta conosciuta come Mundus Novus che introduceva in Europa le prime nozioni circa le magnifiche scoperte del nuovo continente misterioso, Amerigo Vespucci parla delle pratiche di cannibalismo incontrate fra gli indigeni tupi della costa settentrionale del Brasile. Sebbene rimanga difficile dire in quale idioma Vespucci possa aver conversato con l’insaziabile cannibale, di tali pratiche aveva già parlato Colombo e altrettanto faranno viaggiatori posteriori, con dati e narrazioni molto precisi, al punto che difficilmente si può prendere le loro affermazioni soltanto come stereotipi della barbarie dei locali.

LA TESTIMONIANZA più nota è del tedesco Hans Staden, al servizio dei portoghesi, che sarebbe stato rapito nel 1552 nelle foreste amazzoniche e tenuto prigioniero in attesa di essere mangiato, riuscendo però a fuggire e a scrivere le proprie memorie per un pubblico avido di dettagli al contempo esotici e macabri. Staden scrisse diffusamente dell’apprezzamento dei tupi per la carne umana; nel suo racconto la ritualità dell’atto e dei preparativi connessi è evidente: al contrario degli altri membri della tribù, il carnefice non consumava la carne della vittima e aggiungeva il suo nome al proprio. Lo squartamento, la distribuzione di un pezzo per ogni casa, le danze e i canti per tutta la notte sono ovvi elementi rituali.
Quando il tedesco rifiuta di assaggiare la carne umana che il capo vorrebbe offrirgli, dicendo che nemmeno gli animali mangiano quelli della propria specie, questi gli risponde: «Io sono un giaguaro e questa carne è buona». Lungi dall’essere solo una battuta, la frase è di straordinario interesse antropologico perché, rinvia a un’appartenenza totemica che sostituisce ciò che per l’europeo Staden è l’appartenenza a una specie.
Nonostante le buone ragioni fornite dall’antropologia, per gli europei del passato o della modernità il cannibalismo resta un tabù quasi assoluto, nonché il simbolo della barbarie: il cannibalismo è il segno dell’alterità assoluta. Il francescano Giovanni di Pian del Carpine, viaggiando in Asia verso la metà del Duecento, parla del cannibalismo funerario dei tibetani.

A SUMATRA MARCO POLO scrive di «genti bestiali, che catturano volentieri gli uomini per cibarsene»; ne descrive anche la patrofagia, ossia il costume di mangiare gli anziani (dopo averli soffocati) «in un banchetto in allegra compagnia, mangiandoselo tutto, compreso il midollo racchiuso nelle ossa, cosicché non resti proprio nulla della sua sostanza».
Questi casi introducono una nozione importante: il cannibalismo ha la funzione di assimilare qualcosa dell’altro, che si tratti di un nemico o di un parente; la forza, lo spirito, magari il desiderio di rivalsa vengono fatti propri da colui che mangia ritualmente una porzione del cadavere. Tali nozioni possono introdurre un tema peculiare della letteratura e della favolistica, quello del cuore mangiato, che ha una straordinaria diffusione geografica (Nord della Francia, area occitana, Germania) e cronologica.

NELLA CULTURA MEDIEVALE lo troviamo inizialmente nel romanzo francese e nella lirica trobadorica, in Italia all’interno della Vita Nuova, con la quale Dante entra nella cerchia dei poeti d’amore, com’egli scrive esplicitamente. Il primo sonetto, A ciascun’alma presa e gentil core, parla di un sogno fatto dopo aver incontrato Beatrice per la seconda volta, all’età di 18 anni, nel quale il poeta vede Amore personificato che tiene in braccio Beatrice addormentata: in una delle mani Amore stringe il cuore del poeta e, dopo aver svegliato la donna, glielo fa mangiare, cosa che ella fa sebbene con paura; a questo punto la gioia si trasforma in dolore. Il tema che Dante inserisce nel sonetto ha un significato chiaro: Dante è vittima di Amore e il suo cuore viene dato in pasto alla donna amata.

SE CON DANTE il cuore mangiato ha una dimensione onirica e metafisica, in Boccaccio recupera la fisicità della tradizione precedente. Due novelle del Decameron contengono questo tema: nella IV.9 «Messer Guiglielmo Rossiglione dà a mangiare alla moglie sua il cuore di messer Guiglielmo Guardastagno ucciso da lui ed amato da lei; il che ella sappiendo poi, si gitta da un’alta finestra in terra e muore, e col suo amante è sepellita».
Nella IV.1 «Tancredi, prenze di Salerno, uccide l’amante della figliuola e mandale il cuore in una coppa d’oro; la quale, messa sopra esso acqua avvelenata, quella si bee, e così muore».

ENTRAMBE LE NOVELLE sono inserite nella quarta giornata, quella degli amori infelici; nel secondo caso il pasto immondo non avviene, nel primo invece sì, in una delle varianti più note nella letteratura: l’amante si vendica del tradimento costringendo a mangiare il cuore dell’amante; tuttavia, in altri esempi è l’amante morente a chiedere che il suo cuore venga estratto e portato alla donna come prova della fedeltà. La storia del cuore di Guglielmo Guardastagno trova un parallelo molto preciso nella letteratura indiana (La storia di Raja Rasálu), mentre Boccaccio lo trae dalla leggendaria vita del trovatore occitano Guilhem de Cabestaing, vissuto cavallo fra XII e XIII secolo: Guilhem è amante di Seremonda, moglie del signore Raimondo di Rossiglione, e quando quest’ultimo viene a sapere della loro relazione, lo uccide durante una battuta di caccia, ne estirpa il cuore e lo fa cucinare per essere servito a tavola alla sua consorte la quale, venuta a conoscenza della verità, si suicida gettandosi da una finestra del palazzo.

IN CONCLUSIONE, la storia del cuore mangiato, con la sua straordinaria diffusione in contesti anche assai differenti, mostra il rapporto complesso con il tabù del cannibalismo; lo fa tuttavia confrontandosi con una parte del corpo umano peculiare: il cuore viene indicato come sede dei sentimenti in tante tradizioni, certo per via del suo carattere qualitativamente diverso rispetto agli altri visceri, certo noto all’esperienza di popoli abituati alla dissezione (come gli egizi per il procedimento di mummificazione) o al sacrificio umano (come gli aztechi).
Ciò è vero anche nella tradizione occidentale e cristiana: il cuore veniva estratto e riposto in un recipiente specifico in certe cerimonie funerarie di personaggi illustri, anche qui con riferimento all’organo come sede centrale della vita spirituale di colui che lo aveva posseduto. Probabilmente sta qui la radice lontana, antropologica, del successo del tema del cuore mangiato che sembra contenere tanti motivi diversi, dal fascino misto a orrore per la rottura del tabù, fino alla contrapposizione fra amor cortese (il cuore spirituale) e desiderio carnale, espresso dall’atto del divorare.

******************

Le tavole della letteratura sono sempre state imbandite. A volte, il cibo stesso, un ingrediente, una ricetta, una tradizione conviviale sono stati i motori della narrazione. Si sono trasformati in personaggi, assumendo su di loro temi simbolici, rappresentando la vita, la morte, il destino, le emozioni. Fino a fine agosto, pubblicheremo una serie di pagine dedicate a romanzi con qualcosa da mangiare. Il logo delle nostre «Cucine letterarie» è «Kitchen range» di Roy Lichtenstein, un’opera del 1962.