Appena ottantenne, il cuore grande di Marco Ligas, un altro protagonista fondamentale della storia de il manifesto, ha terminato di battere ieri notte. Lo scrivo col dolore profondo di un affetto fraterno. Di lui mi parlò per la prima volta Luigi Pintor quando, tra il 1966 e il 1969, nei brevi rientri romani, mi raccontava della sua vita a Cagliari, dove era stato distaccato – se così si può dire – alla segreteria regionale del partito, per aver peccato di ingraismo. E dove nel frattempo (1968) era stato anche eletto deputato, che allora nel Pci – se le due cariche non si univano – contava meno di un dirigente nazionale.

Ma in quel caso i conti non tornarono. L’arrivo di Pintor in Sardegna ebbe l’effetto di galvanizzare le inquietudini che già da tempo andavano maturando autonomamente in quasi tutte le federazioni provinciali. Il punto più effervescente di questa vasta diffusione del dissenso su alcuni punti importanti della linea prevalente nella Direzione del Pci, dopo la morte di Togliatti, fu la sezione Lenin di Cagliari, la più grande di tutta l’isola, con oltre mille iscritti e una presenza di compagni di notevolissimo livello politico, battagliero, intellettuale. E Marco Ligas, poco più che ventenne, era uno di loro. In quel periodo fu anche per qualche tempo segretario della Fgci regionale. Sostenne quindi dagli inizi, nell’imminenza dell’estate ’69, la nascita del Manifesto rivista mensile. Lo fece in tutte le sedi da lui raggiungibili in cui se ne discusse, fino all’esito sciagurato del novembre che portò alla radiazione di tutto il gruppo dei promotori e poi, scendendo per li rami, di ogni iscritto che ne aveva approvato le intenzioni e difeso la legittimità.

La scelta fu talmente ragionata, allora, da mantenere per sempre, per tutti gli anni successivi, la stessa direttrice di orientamento. Non per sottovalutazione dei mutamenti via via avvenuti e da studiare e comprendere, ma per non aver trovato nulla, nella ricerca, di convincente almeno quanto i ragionamenti di allora. Lo prova il fatto che le divergenze insorte, tra le sue convinzioni e quelle di altri compagni di medesima origine, non lo hanno sconfortato al punto da rinunciare ad agire e a promuovere iniziative impegnative sul piano della discussione politica e ideale.

Tornando a quei passaggi del ’69, ricordo che ci conoscemmo di persona proprio quando fummo radiati. Di quel giro largo di cagliaritani che vissero quelle vicende, mi limito a nominare solo Salvatore Chessa, altro compagno di raffinata intelligenza, che dopo la nascita del quotidiano non solo accettò di venire a lavorare con noi a Roma, ma si stabilì anche nella casa dove abitavamo io e Lucio Magri. Per ricordare che allora si stringevano pure così forti legami di amicizia, oltre che di intese ideali. Così posso dire che tra me, Salvatore e Marco, che approfittava di ogni occasione di riunioni politiche per venire a trovarci a Roma, costruimmo un triangolo di ottimo metallo.

Purtroppo il lato di Salvatore si ruppe presto, per un disgraziato incidente automobilistico. Quello di Marco ha ceduto ieri, maledizione. E ora mi rammarico di non avere la calma interiore per dire di lui tutto quel che io vorrei e lui meriterebbe. Ce ne sarebbero cose da raccontare per far luccicare le sue qualità in più di un campo. Lo farò, se ne avrò il tempo. Per ora lo abbraccio con la gioia di essere stato suo caro amico. E mando un bacio alle amate sue tre donne: Maria Grazia, moglie di tempra non comune, Valeria e Laura, figlie all’altezza dei genitori.