Di A Promising Young Woman si è molto parlato – dalla presentazione al Sundance 2020 – ma forse non così come sarebbe avvenuto senza la pandemia che ha risucchiato questo e tanti altri film- anche se poi ha vinto l’Oscar per la migliore sceneggiatura originale. È che l’esordio di Emerald Fennell – regista e sceneggiatrice – si sintonizza pienamente con le istanze del presente toccando questioni come mascolinità tossica, violenza, slut-shaming, ricatto, sopraffazione sessuale nella società americana con la cifra sempre accattivante (e riconoscibile) di un cinema indie che ammicca un po’ alla commedia dark e un po’ ai Teen-Movies del college e ai suoi incubi ferocemente horror. Nelle citazioni, «false» piste, nei momenti riconoscibili oscilla senza fermarsi dall’uno all’altro, forse perché l’autrice pone dei limiti molto netti proprio con lo script per mantenerlo aderente all’intento principale: un racconto del mondo e delle relazioni tra maschile e femminile che si basa sulla sopraffazione e su un potere a cui chiunque, donne comprese, concorre.

«ERA UBRIACA» – diranno di Nina – l’amica del cuore della protagonista Cassie (Carey Mulligan) i ragazzi perbene che l’hanno stuprata in una delle tante feste al college. Nessuno le ha creduto o ha preso le sue parti, a cominciare dalla preside, che pure è una donna; i genitori del ragazzo hanno comprato i testimoni, un avvocato compiacente ha gettato fango, e anche le altre studentesse non sono intervenute – se sei sempre sbronza un po’ te la cerchi chiosano. Fino a che lei terrorizzata ha ritirato la denuncia. E studentessa brillante di medicina ha lasciato i corsi, è caduta in depressione, è morta. Anche Cassie ha abbandonato gli studi per starle vicina cristallizzando la sua vita a quel momento: a trent’anni vive in una casa bomboniera coi genitori, non ha aspettative, lavora in un bar per pochi soldi, continua a vestirsi come una quindicenne. E soprattutto è ossessionata dall’idea di vendicare l’amica a suo modo. Ogni sera esce e va in giro nei locali, rimorchia maschi fingendosi ubriaca, e una volta «condotta in salvo» mentre ci provano approfittando della sua debolezza li mette davanti al loro squallore – «sei una psicopatica» le grida uno di questi.

CASSIE non ha amori, non ha amici, c’è per lei solo quel passato che neppure più la madre di Nina vuole ricordare. Eppure i vecchi compagni di college non sono tanto cambiati, e anzi quando raccontano la vicenda ripetono le stesse cose di allora, mentre si giustificano dicendo: eravamo solo ragazzi. E oggi? Nelle loro parole rimbomba la cronaca, quella di questi giorni – le frasi di Ciro Grillo e dei suoi amici – e quella scritta negli anni, in tanti luoghi, non solo in America compresi i commenti sulle donne che sono costrette sempre a difendersi anche se colpite.
C’è però nello «schema» del film a un certo punto uno scarto che arriva all’improvviso e inaspettato verso il finale, in cui si cambia all’improvviso di tono, uno sprazzo crudo, terribile, che è anche un interrogativo: si può parlare di temi importanti in forma più libera? Quel passaggio porta nel film un elemento disturbante fino a quel punto inespresso che Ferrell però mette di nuovo quasi subito nel suo paradigma. Tutto giusto ma che non lascia mai spazio rivelando lo scheletro della sceneggiatura costantemente.

IL MONDO così rigidamente manicheo intorno a Carrie riflette e amplifica probabilmente il suo sguardo, il suo dolore, il suo trauma, vendicatrice dell’amata amica – quasi come nei film hollywoodiani degli anni ’70 – ma senza violenza, la sua è infatti è una messinscena che punta a far provare vergogna, a far sentire anche se solo per un attimo un disagio. E a rispondere a quel suo desiderio di giustizia per quanto Nina e tante come lei hanno subito.
Mentre tutto accade secondo passaggi che non ci sorprendono ecco che quell’improvviso cambio di passo rimette tutto un po’ in discussione. E nei gesti della protagonista, in certe frasi fin troppo sottolineate balena qualcosa che lascia un disagio, che sfugge e che suggerisce qualcos’altro.