Un mese e mezzo fa, già non si parlava altro che di Party Girl e del suo trio di cineasti esordienti. Tutte le sezioni sembravano contendersi il film, fino a che Thierry Frémaux ha chiuso la partita annunciandolo in apertura di Un Certain regard. Marie Amachoukeli, Claire Burger, Samuel Theis hanno studiato alla scuola di cinema di Parigi, la Fémis. Prima di diventare un trio, il loro connubio è iniziato con due fortunati duo: Forbach (Amachoukeli più Theis) premiato al festival del cortometraggio Clermont-Ferran en 2009 et C’est gratuit pour les filles (Amachoukeli più Burger), César del miglior cortometraggio nel 2010. Simon Theis è all’origine del soggetto del film, una storia autobiografica incentrata sul personaggio di sua madre Angélique, la quale, dopo una vita trascorsa a lavorare nei locali notturni, sposa un cliente che si è innamorato di lei. Laddove inizia la favola, appare il dramma: lo schema, è quello di Grace di Monaco, film d’apertura – che come ogni anno, viene preso per un insulso polpettone, salvo poi scoprire che è stato scelto, se non per le sue qualità artistiche, come una sorta di guida all’insieme della programmazione.

L’azione di Party Girl si svolge tutta in una città della Lorena, alla frontiera tra la Francia e la Germania. All’inizio, Angélique attraversa una strada in cui sono concentrati i night club della zona. Accompagnata da un gruppo di colleghe di varia età, tutte più giovani di lei che ha oltrepassato i 60, fa da Cicerone alle sue compagne e al pubblico in sala, indicando i nomi di locali notturni chiusi dove in passato ha lavorato e soggiornato.

Come le prostitute d’una volta, Angélique vive sul luogo dove lavora. Party Girl, titolo di un film del 1958, avrebbe potuto prendere in prestito un altro titolo di Nicolas Rey, They Live by Night, tanto la vita di Angélique è nella night, la notte ad adescare al bar, il giorno a dormire nella sua camera al piano superiore, nonostante l’età, nonostante i clienti per lei scarseggino… Il personaggio è ovviamente fuori dall’ordinario. Tanto più che la persona che lo interpreta recita se stessa e che gli autori hanno rivelato di aver lavorato più a contenerne l’esuberanza che ad esacerbarne i tratti. Anche gli altri membri della famiglia di Angélique interpretano il proprio ruolo, con molta generosità e non senza grazia. Il resto del cast è costituito da non attori ingaggiati tra gli abitanti del luogo. Il film è dunque molto vicino ad essere una sorta di documentario messo in scena. È probabile che una parte dell’interesse che Party Girl ha suscitato, prima ancora di essere proiettato, sia da attribuire a quest’alchimia di elementi di vita vissuta da un lato e di cinema di finzione tradizionale dall’altro.

L’intrigo del film è piuttosto leggero. Quello che lo rende, in parte, interessante è la sua maniera di sviluppare il tema della frontiera. O, più esattamente, come due frontiere di natura diversa, quella tra Francia e Germania, quella tra la notte e il giorno, si accordino per formare una sola immagine. Storica l’una, morale l’altra, a priori, esse non hanno nulla di simile. Se non il fatto che il tempo presente ha come caratteristica di averle rese entrambe permeabili. Così, i due nemici storici, Francia e Germania, celebrano nel film la loro amicizia con feste paesane, come se le tre violente guerre che hanno insanguinato l’Alsazia e la Lorena appartenessero ad un pagina che si è potuta definitivamente girare.

Così, il proletario in pensione, l’ex minatore Michel, pensa che Angélique, di cui è innamorato, possa abbandonare il mondo della notte e prendere a vivere la vita ordinaria di una casalinga. A sue spese, scoprirà che non è affatto così. Il film ha l’intelligenza di non spiegare perché, per Angélique, il passato sia così tenacemente presente.

Attraverso di lei, si limita suggerire che anche per la Lorena sia così e a disseminare delle tracce del persistere delle frontiere, le quali si incrociano e si sovrappongono in maniera sottile, per esempio nel bilinguismo asimmetrico dei personaggi, i quali passano dal francese al tedesco o mescolano l’una e l’altra lingua seguendo dei percorsi della mente che si possono osservare, eventualmente analizzare, ma che restano insondabili.