La Corsica è un mondo a parte, un luogo fuori dall’immaginazione. Quest’anno grazie al Tour de France che è iniziato proprio dall’isola, abbiamo visto le sue spettacolari bellezze da Aiaccio a Bastia, il colore del mare, dei boschi e dei monti. Il 14 agosto esce nelle nostre sale in contemporanea con Parigi un film che ci riporta i colori di quella natura, ma ci fa anche entrare più a fondo nelle problematiche di questa terra sconosciuta: «Apache» di Thierry de Peretti, presentato alla Quinzaine des Auteurs a Cannes.

È distribuito in una data inusuale dalla Kitchen Film, una distribuzione indipendente che ha fatto spesso da apripista e aggiunge un tocco europeo mantenendo una volta tanto la lingua originale con i sottotitoli. Un film da non perdere che mantiene intatta la sua atmosfera.

La scena è una casa di vacanze dalle grandi vetrate dove un operaio marocchino e il figlio hanno appena finito di sistemare il giardino, mentre la madre si è già occupata delle pulizie. Il padre, custode onesto, cerca di tenere a bada il figlio che poco sopporta le imposizione. Esplode una danza di guerra in una discoteca, una danza tribale al suono delle percussioni e dei sintetizzatori, fra i lampi di laser che mostrano espressioni estatiche, gesti liberatori: a evocare immediatamente «les apaches» del titolo, che nel gergo francese assumeva negli anni cinquanta il significato di teddy boys, di hooligans. I ragazzi su cui si focalizza l’attenzione del regista sono per lo più nordafricani, operai, muratori, domestiche negli hotel.

Aziz porta qualche amico all’uscita della discoteca a fare un tuffo nella piscina della villa dove lavora, ma come il whisky aveva distrutto gli autentici apache, così l’ebbrezza delle bevute, l’arrivo di altri amici fa precipitare la piccola festa privata e un borsone viene presto riempito con giradischi, lettori dvd e alcuni fucili da collezione. Proprio come quei fucili dalla canna istoriata nell’argento o nel metallo dei western, a evocare ancora una volta la vecchia america, i lontani commerci e le guerre contro i nativi.

Ma nulla avviene nella zona senza il controllo di un piccolo boss locale che subito sguinzaglia i suoi quando i padroni della villa si accorgono del furto, in realtà poca cosa, ma che non può passare liscia. E soprattutto la polizia deve restare fuori da tutta questa storia («se non ti serve niente chiami la polizia. Sistemo tutto io»). Mentre i ragazzi ricchi intrecciano altre danze «tribali» sulle spiagge, il piccolo gruppo deve imparare a sviluppare le leggi non scritte dell’omertà, non essere sfiorati dal sospetto di tradimento, sfuggire al controllo di adulti e boss, con un non ben identificato desiderio di ricchezza tutto contenuto nella fantomatica vendita dei fucili che li porterà alla rovina.

Nel vedere agire i ragazzi, mondo veramente a parte nel contesto dell’isola abitata in estate dai vacanzieri, dai francesi ricchi che tornano nelle loro ville, si ha la sensazione che i due mondi non si toccano neanche per sbaglio, anzi neanche si sfiorano né si vedono. E in maniera complessa proprio così si chiude il film, quando, indisturbato, il cervello del gruppo riporta i fucili nella villa là dove li avevano presi, nel mezzo di un’altra festa, percepito come un lavorante, un inserviente, quindi invisibile.

Si direbbe una «lotta di classe» che avviene tutta tra poveri. E ancora di più sembra di vedere, come in un prequel, l’educazione criminale dei consumatissimi Serge Reggiani, Lino Ventura, Yves Montand (anche loro figli di immigrati), in giro in auto a regolare conti. E non solo a istruirsi alla scuola di criminalità, ma anche a scuola di coraggio: ci sono i marocchini, ma c’è anche il francese che si dà arie da separatista e piuttosto fascista e che già si crede un uomo fatto, un altro ancora così infantile da affogare tutto nella bulimia selvaggia, l’irreparabilmente bruno che si fa tingere i capelli di biondo cenere come a cancellare identità e colpa (proprio come i ciclisti quando cancellano dai capelli la presenza di doping). L’azione si ricopre di malinconia selvaggia, estrema, non si potrà mai più tornare indietro.

Dopo la presentazione romana di Apache, Thierry de Peretti si è fatto accompagnare all’Idroscalo di Ostia, luogo desolatissimo in qualche modo già evocato nel suo film. Quando ha detto che i suoi registi di riferimento sono Philippe Garrel, il primo Assayas (e qualcosa può ricordarlo) e Pasolini, a cui ha dedicato un cortometraggio, abbiamo dovuto mettere da parte le più lontane evocazioni che sentivamo affacciarsi tra le scene, come a fare da sfondo non dichiarato: la Corsica dei polizieschi, quel lontano incontro con José Giovanni che ci aveva fatto scoprire l’altra sponda dei marsigliesi.

In «Apache» il tessuto di coltura ci sembrava proprio quello, in chiave contemporanea. Ma il ricordo di Pasolini è spiazzante: messo da parte il regolamento di conti, il carattere di scuola di criminalità, il film fa pensare a una parabola che deve infine convergere in un assurdo omicidio in un luogo abbandonato e senza perdono.