Il centenario, pochi mesi fa, della creazione di Fountain, il readymade archetipico di Marcel Duchamp, potrebbe suggerire allo storico d’arte abbondanti spunti di riflessione sulla banalizzazione di un procedimento che se al suo apparire prese in contropiede gli stessi artisti d’avanguardia si è imposto in seguito come il paradigma più influente, e forse più inflazionato, nel panorama artistico dal 1950 in avanti.

La cronaca di questi mesi ci offre un caso emblematico per ripensare la portata attuale di un’invenzione che ha radicalmente ridefinito limiti e possibilità della creazione artistica.

Ecco i fatti.

Nel 2012 l’artista americano Sam Durant presenta a documenta 13 a Kassel una installazione en plein air, Scaffold, una costruzione in legno che riproduce, combinandole, le strutture dei patiboli usati tra Otto e Novecento negli Stati Uniti per le esecuzioni capitali, dall’impiccagione nel 1859 del ribelle abolizionista John Brown e nel 1865 dei cospiratori nell’assassinio del presidente Lincoln, all’esecuzione di trentotto indiani Dakota a Mankato, Minnesota, nel 1862, e degli anarchici del Chicago Haymarket Massacre, nel 1887. Appropriandosi di un oggetto saturo di reminiscenze storiche, l’intento di Scaffold è convocare in forma allegorica lo scottante nodo storico e politico della pena di morte negli Stati Uniti e la sua specifica, e sempre ufficialmente trascurata, dimensione razziale.

Acquistato dal Walker Art Center di Minneapolis, il lavoro è destinato allo Sculpture Garden annesso al museo, la cui apertura era prevista ai primi dello scorso giugno. Ancora in allestimento, Scaffold diventa oggetto di un’intensa polemica, sollevata in particolare da rappresentanti della nazione Dakota, che la denunciano come una violazione, una «ferita» alla propria storia. Rappresentanti politici, organizzazioni e artisti native American condannano senza appello l’opera di Durant: un manifestante, Sasha Houston Brown, riassume la loro posizione al quotidiano Star Tribune: «è davvero traumatizzante vederla spuntare senza nessun avvertimento o idea del perché lo si fa. Non è arte secondo noi».

Il 29 maggio Durant risponde con una dichiarazione in cui difende la sua scelta («non si tratta né di un memoriale né di un monumento ma di un avvertimento contro l’oblio del passato») ma ammette anche, con tono autocritico, di aver commesso «un grave errore di valutazione» nel non considerare, in quanto «artista bianco», come il lavoro avrebbe potuto essere letto dalla comunità Dakota.

Vi è insomma una distanza irrimediabile tra le intenzioni dell’artista e le reazioni del pubblico: il valore dello choc, uno dei grandi miti fondatori dell’arte moderna, appare rovesciato e assunto come conseguenza negativa dallo stesso artista e dall’istituzione che ne espone il lavoro. La «ferita» alla sensibilità del pubblico diventa insostenibile, l’offesa irreparabile: in conclusione, Scaffold sarà smantellata e i suoi materiali destinati a essere bruciati cerimonialmente. Durant, per parte sua, cederà alla comunità Dakota il copyright dell’opera, impegnandosi a non riprodurla o esporla mai più.

La vicenda è emblematica per diverse ragioni. Anzitutto, per la comunità Dakota, Scaffold riapre una ferita perché l’opera non prende posizione e anzi manifesta una fondamentale ambiguità: non proietta una interpretazione corretta, ma lascia allo spettatore – come sempre nella tradizione che da Duchamp prende le mosse – la responsabilità di situarsi in rapporto all’artefatto e la possibilità del rifiuto («questa non è arte», appunto). D’altro canto, i Dakota si dimostrano in questo frangente i critici più acuti di Scaffold, ne svelano tanto l’inconsistenza politica – la pretesa cioè, tanto dell’artista che dei suoi committenti, di cavarsela con un appello inoffensivo e superficiale alla buona coscienza dell’educato pubblico dei musei – quanto la banalità estetica.

Il cadavere di Till

Sul fondo di questa vicenda si agita d’altro canto la polemica intorno all’appropriazione culturale, tema i tra più controversi in campo artistico specie nel mondo anglosassone. Uno dei suoi episodi più recenti è la disputa intorno al quadro dell’artista Dana Schutz, Open Casket, esposto lo scorso inverno alla Whitney Biennal, che riprende una delle icone della lotta per i diritti civili, l’immagine del cadavere di Emmett Till, un ragazzo nero di 14 anni linciato in Mississippi nel 1955. Le proteste in questo caso si sono spinte sino a chiedere la distruzione pura e semplice dell’opera, in base all’idea, come ha scritto l’artista Hannah Black in un lettera aperta, che «non è lecito trasformare la sofferenza nera in profitto e divertimento».

Se è necessario denunciare il saccheggio culturale operato dal colonialismo e le rappresentazioni stereotipate delle minoranze, l’idea che esista un uso «illecito» di temi o immagini o un diritto esclusivo alle risorse di una cultura, proietta tuttavia una intollerante e perniciosa identificazione assoluta tra personalità creativa e «identità». Nel suo Critica della vittima (Nottetempo 2014), Daniele Giglioli ha analizzato con grande penetrazione questa logica vittimaria che sembra occupare tanta parte dello scenario sociopolitico contemporaneo. Se solo la vittima ha valore – scrive Giglioli – la possibilità di dichiararsi tale è una posizione strategica da occupare a tutti i costi, e, come notava Richard Sennett in Autorità, «il bisogno di legittimare le proprie opinioni in termini di offesa o di sofferenza subita lega sempre più gli uomini alle offese stesse: ‘quello di cui ho bisogno’ è definito nei termini di ‘quello che mi è stato negato’».

È possibile uscire da questa impasse? Hal Foster già denunciava in un saggio del 1995, The Artist as Ethnographer?, l’equivalenza, tradizionale per la critica di «sinistra», tra trasformazione artistica e trasformazione politica, notando che se il «luogo» di questa trasformazione è sempre altrove, nel campo cioè del soggetto subalterno, ciò presuppone anche che sia possibile un accesso immediato, identitario, a un’alterità trasformativa.

Questa concezione, come argomenta Jacques Rancière ne Lo spettatore emancipato, riposa sull’illusione che si possa immaginare un rapporto definibile tra «l’intenzione di un artista, una forma sensibile mostrata in un luogo d’arte, lo sguardo di uno spettatore e la condizione di una comunità».

L’immediatezza etica

Se nella reazione a opere come quelle di Sam Durant e Dana Schutz si assiste allo spostamento sul piano simbolico di conflitti (emarginazione, ineguaglianze, razzismo) che restano inespressi sul piano politico, essa si nutre dell’idea che l’esperienza artistica sia riducibile a una «pedagogia dell’immediatezza etica», rimuovendo così il nodo cruciale di una specifica efficacia estetica. L’arte contemporanea ha visto sempre più accrescersi negli ultimi due decenni il peso della sua «responsabilità», nella frustrante e improduttiva ricerca di politicità, dimenticando spesso che essa può rivendicare invece la capacità di lanciare uno sguardo inammissibile sul mondo, di mostrare ciò che rimane per sempre precluso, ciò che fa male, che supera i limiti del discorso: il negativo, la perdita di sovranità, il vuoto.

È ormai necessario espandere il campo ad altri discorsi, muovere in direzione di ciò che non sappiamo, alle lacune dell’archivio, all’ostinazione del mondo materiale, a quella «certa quantità di non essere» che seguita a sfuggirci. È in questo potenziale negativo dell’arte che si potrebbe identificare oggi anche il suo potenziale politico.