Secondo il ranking Fifa 2016 aggiornato al 2 giugno l’India occupa la 163esima posizione. Su 204 nazioni. Basterebbe questo dato per sbugiardare anni di hype truffaldina che hanno raccontato – male, colpevolmente – un subcontinente finalmente maturo per unirsi all’ammorbamento collettivo del calcio globalizzato.

Tutto è cominciato nel 2014, quando un gruppo di industriali e star di Bollywood ha creato dal nulla la Indian Superleague di Football: un torneo a otto squadre sponsorizzato dalla Hero (motociclette), il gruppo televisivo Star e dalla multinazionale IMG-Reliance, nato come palese operazione commerciale, con la fretta di metter su in quattro e quattr’otto una «tradizione calcistica moderna» avvalendosi della collaborazione d’immagine di ex giocatori – ora nel ruolo di bolliti – a fare da «super allenatori» e «superstar in campo».

Gli otto club – Atlético de Kolkata (sic!), Chennaiyin Fc, Delhi Dynamos, Goa, Kerala Blasters, Mumbai City, NorthEast United, Pune City – in soli due anni hanno visto avvicendarsi «leggende» del pallone internazionale come David Trezeguet, Robert Pirès, Roberto Carlos e Alessandro Del Piero, impegnati per un paio di mesi l’anno, da ottobre a dicembre, a sgambettare o «allenare» un gruppo di giocatori professionisti suddiviso in classi inevitabilmente coloniali: un paio di giocatori stranieri che vantano una carriera di rispetto circondati da professionisti allo sbaraglio indiani. Gli stessi comprimari che, regolarmente, vanno a comporre la selezione nazionale indiana, tra le meno competitive sul pianeta Terra. Lo stato dell’arte del gioco del calcio nel subcontinente nel 2016 è riassumibile in un aneddoto visto in prima persona nell’inverno del 2014 a New Delhi. Siamo negli ultimi giorni di settembre e nel quartiere bengalese di Chittaranjan Park (CR Park) la comunità bengali locale si è riversata nelle strade per festeggiare Durga Puja, la ricorrenza annuale che celebra la vittoria della dea Durga sul demone Mahishasura. Durga, nel Bengala occidentale, è di gran lunga la divinità più adorata dalla popolazione locale e nei giorni della Puja i fedeli costruiscono templi temporanei – pandal – ornati da statue che raffigurano la dea nera trionfante.

È tradizione consolidata a Calcutta che durante i giorni di Durga Puja si esca a far festa fino a notte inoltrata, facendo il giro dei pandal eretti in città ingozzandosi di fritti e cibo di strada: tradizione che anche nel quartiere di CR Park, a Delhi, le seconde o terze generazioni di bengalesi portano avanti con immutato entusiasmo. In fila per entrare dentro al pandal, gli altoparlanti sbraitano improvvisamente il nome di Alessandro Del Piero, capitano dei neonati Delhi Dynamos. Pochi minuti dopo, la calca di gente davanti alla statua di Durga si apre e dall’entrata emergono un gruppetto di occidentali circondati da guardie del corpo. Al centro, Alessandro Del Piero ha gli occhi spalancati, madido di sudore, strattonato dall’entusiasta «conduttore» dell’evento che lo trascina sul palco di fronte a Durga, strappandolo alle mani e agli smartphone di centinaia di bengalesi in visibilio.

Di fronte alla dea che sconfigge il male, il dio di plastica Alessandro Del Piero – ingessato come la statua che gli fa da sfondo – è ostentato alla folla dei fedeli, alla quale la dirigenza del nuovo club promette otto settimane di successi, di «sogno», di «leggenda». (La prima edizione del torneo l’avrebbe poi vinta il Kolkata; Delhi non si qualificò nemmeno per i playoff, chiudendo quinta su otto).

L’ex numero 10 juventino, suo malgrado, ha incarnato per New Delhi il prodotto di esportazione dei sogni che vorrebbe imporre al pubblico indiano abitudini di consumo emozionale in linea col resto del mondo, unito nel pallone. Ai numeri altisonanti dei telespettatori – 429 milioni nella sola prima stagione – combaciavano stadi mezzi vuoti e biglietti in svendita, fino a 150 rupie, poco più di due euro, nel tentativo di aumentare il coefficiente panem et circenses sugli spalti, così che la pantomima televisiva di un campionato di calcio europeo con caratteristiche indiane potesse raggiungere una parvenza di verosimiglianza con gli show della Premier League o della Liga.

Nel trionfo disastroso dell’esportazione coatta dello spettacolo calcistico – e non del calcio spettacolo – le nuove «leggende» posticce rischiano di adombrare una storia di calcio e identità gloriosa, commovente e letteralmente leggendaria, cara soprattutto ai bengalesi. Alla fine del diciannovesimo secolo il Raj britannico era attraversato da nuovi sentimenti insurrezionalisti da parte della popolazione locale, abbattuta dal fallimento della rivolta dei Sepoy (1857), il primo sussulto anticoloniale condotto dai soldati indiani impiegati nelle truppe della corona inglese e sedato nel sangue dall’esercito britannico.

La massiccia presenza di forze armate britanniche in India, ad amministrare un territorio sterminato ma soggiogato nel corpo e nello spirito alla volontà dell’invasore bianco, rese necessaria l’organizzazione di attività ricreative che mostrassero, anche nel gioco, la superiorità genetica dell’europeo contrapposta all’inabilità del povero uomo indiano, relegato al ruolo di spettatore della grazia altrui. E Calcutta, il centro dell’Impero coloniale e, parallelamente, del sentimento anti-britannico teorizzato dal movimento Swadeshi, doveva essere da esempio per tutti.

Per il sollazzo delle truppe nacquero così i primi tornei di calcio, competizioni tra le selezioni dei diversi reggimenti britannici in forze nel subcontinente. Si trattava di tornei per soli bianchi, sostenuti economicamente dalla corona inglese, ai quali la partecipazione di squadre indiane non era nemmeno vietata: il calcio era pratica sconosciuta ai locali e nessuno aveva mai pensato di poter competere coi corpi allenati dei soldati dell’Impero. Nessuno fino al 15 agosto del 1889, quando un gruppo di intellettuali presieduto da Bhupendra Nath Basu si riunì al civico 14 di Balaram Ghosh Street, Calcutta nord, e fondò la prima squadra di calcio asiatica della storia: il Mohun Bagan.

Raccogliendo aspiranti giocatori dalle strade della capitale, il Mohun Bagan iniziò a competere con le selezioni dei reggimenti britannici nelle competizioni organizzate a Calcutta e dintorni, inanellando una serie di sconfitte ad opera di atleti inglesi in forma smagliante, ben nutriti e benissimo attrezzati: gli inglesi, a differenza degli indiani, potevano permettersi divise e scarpini da calcio. In poco più di dieci anni i giovani atleti part-time del Mohun Bagan – uomini che si allenavano nel tempo libero ritagliato da impieghi di tutto rispetto nella burocrazia locale – iniziavano a prendere confidenza col gioco degli invasori, guadagnando un seguito locale inizialmente ben visto anche dalla stampa della corona, che esaltava l’intraprendenza ludica dei sudditi più esotici.

Per i bengalesi, la competizione sportiva iniziava a rappresentare invece l’orizzonte della rivincita fisica sul colonizzatore, dimostrazione di orgoglio di un popolo. Nel 1911, invitati dagli inglesi a competere nella prestigiosa Indian Football Association Shield Cup (Ifa Cup), i membri del collettivo del Mohun Bagan chiesero aiuto ai fratelli Shibdas e Bijoydas Bhaduri, originali di Barisal (attuale Bangladesh) e trasferitisi da qualche anno in città, per mettere insieme una squadra che potesse competere a testa alta contro le squadre migliori del panorama militare inglese.
Shibdas era già noto al pubblico col soprannome di «Pichol Babu», lo scivoloso, per come si faceva largo tra i difensori avversari. Una serie di inaspettate vittorie nelle fasi preliminari del torneo, attirò le attenzioni di centinaia di migliaia di bengalesi in tutta la regione, tanto che – secondo la stampa dell’epoca – «per le strade e sui tram di Calcutta non si parla d’altro che dei ragazzi del Mohun Bagan». Il 29 luglio del 1911, per la finale contro l’East Yorkshire Regiment, al campo del Calcutta Maidan arrivarono tra le 80 e le centomila persone, grazie a treni e battelli straordinari che collegavano la città a Patna, all’Assam e a Dhaka. In mancanza di spalti, le migliaia di spettatori seguivano la partita grazie al passaparola e, sempre secondo i giornali dell’epoca, il risultato parziale veniva mostrato con l’ausilio di aquiloni. Nel primo tempo, della durata di 25 minuti, l’East Yorkshire Regiment si portava in vantaggio con una punizione del sergente Stephen Jackson, ma nel secondo tempo lo «scivoloso» Bhaduri realizzava il gol del pareggio e, a due minuti dalla fine, con un «cross morbido» imboccava il centrocampista Abhilas Ghosh per il 2 a 1 finale.

L’agenzia Reuters scriveva: «Quando si venne a sapere che l’East Yorkshire Regiment era stato battuto, i bengalesi iniziarono a strapparsi le magliette sventolandole al cielo. I membri del Muslim Sporting Club erano quasi impazziti e si rotolavano e abbracciavano a terra dalla gioia per la vittoria della squadra hindu». La vittoria del Mohun Bagan divenne il simbolo della rivincita popolare contro le angherie dell’invasore, paragonata dalla stampa indiana all’urlo indipendentista «Vande Mataram» ripreso dal titolo della poesia dedicata da Bankim Chandra Chattopadhyay a Madre India. Il quotidiano The Englishman, ad esempio, scriveva: «Il Mohan Bagan ha avuto successo dove il Congress e lo Swadeshi Movement avevano fallito, sgonfiando il mito che i britannici fossero imbattibili in ogni sfera della vita». Mentre il poeta Achintya Kumar Sengupta, nel pieno del movimento indipendentista indiano, avrebbe scritto: «Il Mohun Bagan non è una squadra di calcio. È un paese torturato che si rotola nella polvere e ha appena iniziato a rialzare la testa». Nel 1989, per il centenario del 29 luglio, le poste indiane stamparono a tiratura limitata una serie di francobolli celebrativi, i primi dedicati a una squadra di calcio indiana. Un paio di piedi nudi dalla carnagione scura che vanno a rubare il pallone a un avversario bianco in scarpini da calcio.

Il risultato degli 11 del Mohun Bagan si è tramandato di generazione in generazione, festeggiato in particolare a Calcutta come il giorno dell’Indipendenza del calcio indiano. Quello vero.