Sembra, dunque, che una grande opera come il ponte san Giorgio, che ha sostituito quello Morandi, si possa costruire in tempi da record anche in Italia. Quello del crollo del Morandi rimane, e rimarrà, uno shock vivo per anni nella città di Genova. Poteva essere evitato?  Quel ponte, simbolo di molte cose: progresso, tecnologia, architettura, modernità, era una macchina semplice.

Una costruzione superba funzionante secondo una geometria elementare basata su elementi semplici, tiranti e puntoni, quasi un manuale da tecnica delle costruzioni, come si insegna nelle scuole di ingegneria e architettura, ma pur sempre una magnifica macchina con la fragilità caratteristica di ogni macchina. Sarebbe bastato un tirante troppo “carico” per farla collassare come un castello di carta.

E questo ci riporta fatalmente a riflettere sulle grandi opere, come il Mose, come il Tav. Macchine semplici che non hanno flessibilità (o nessuna ridondanza): se una parte della macchina cede, cede l’intera struttura. A differenza dell’organismo umano dove un qualsiasi stato di stress di un organo fa scattare un adattamento compensativo da parte di altre parti dell’organismo. È già successo, nel caso del Mose, che l’intero ingranaggio di sollevamento delle paratie mobili finisca col diventare la variabile “al limite”, non compensata, nello sforzo, da altre variabile del sistema, o, peggio, queste ultime esercitano una pressione ulteriore su quella stessa variabile “al limite” portandola al collasso. Nella teoria dei sistemi si dice che in questo caso la perdita di flessibilità della variabile originaria sotto stress, si diffonde per tutto il sistema provocando il collasso.

Richiedeva, il ponte Morandi, un’assistenza, una cura e un’attenzione particolare adeguata alla sua semplicità: verificare costantemente lo stato dei tiranti e dei puntoni, verificare la consistenza, dopo molti anni, della struttura in cemento armato. E sappiamo oggi che questo non è stato fatto dalla Società Autostrade proposta alla sorveglianza della delicata struttura. Così al primo stato di stress di una sua parte, tutto l’intero sistema ha finito per collassare.

Con la sua opera simbolo questa città ha scoperto d’un colpo tutta la sua fragile ed effimera modernità avviarsi verso il declino: l’Ansaldo, il Porto, i carrugi, l’insensata urbanizzazione di un’area sollecitata costantemente da dissesti idrogeologici, la mancanza di una visione del futuro. Poteva essere l’occasione per una riflessione severa sul passato e presente, ma la spettacolarità dell’evento di demolizione e ricostruzione ha rimosso tutti i mali della gestione e dell’amministrazione della città.

La “riparazione” del danno con la costruzione del nuovo ponte è diventata urgentissima e necessaria, una “ferita”, così è stato descritto il crollo del Morandi, che andava immediatamente suturata per non lasciare trapelare ciò che era dietro il sipario: una città già agonizzante dopo che il declino industrialista aveva già seminato macerie senza che una nuova visione post-industriale si affermasse.

Ora si celebra in pompa magna il “modello Genova” (per inciso come si celebrò il “modello Roma” ai tempi di Veltroni) espressione pragmatica di un’efficienza governativa da esportare ad altre situazioni in stato d’emergenza. Ma la modernità è uno stato di perenne conflitto tra la prometeica attività dell’uomo tesa a modificare la natura e quest’ultima le cui regole e leggi diventano sempre più ortogonali a quelle economiche. La pandemia ha messo allo scoperto ciò che già sapevamo e inutilmente rimuovevamo: lo sviluppo e il progresso non possono continuare ad essere contro la Natura, contro le sue leggi.

Occorre invertire rapidamente i presupposti di questo sviluppo nel solo modo che ci è concesso ovvero quello di imboccare da subito la riconversione ecologica di questo modello, in primo luogo arrestare i processi di cementificazione del suolo e la costruzione di Grandi Opere, utili solo per aumentare i profitti di grandi imprese.
Siamo tutti felici che oggi Genova possa tornare alla “normalità” con il nuovo ponte San Giorgio, che la città “spezzata” possa ricongiungersi (a questo servono i ponti), ma sarebbe semplicistico pensare che questa fiera città possa, con quest’opera, guardare al futuro con ottimismo, considerando il crollo del ponte come un semplice incidente nel percorso della modernità.
Se così fosse la tragedia sarebbe risultata inutile e meno che mai ci avrebbe insegnato qualcosa.